CTR Lombardia – Sentenza n. 780 del 21 febbraio 2019

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La soc. E. s.p.a. proponeva ricorso avverso l’avviso di accertamento, emesso dall’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Varese per lres, lrap ed IVA per l’anno di imposta 2012, scaturente da p.v.c. relativo ad una verifica effettuata per l’anno 2012, estesa successivamente al 2011 e 2013, volta all’esame dei rapporti intercompany con società controllate collocate in negli USA, Spagna e Nuova Zelanda al fine di verificare la corretta applicazione dell’art. 110, comma 7, TUIR in attuazione di un’analisi di comparabilità.

Avendo fornito, la società, le adeguate informazioni ed esibito documentazione a sostegno di quanto richiesto, l’Agenzia aveva provveduto all’annullamento del suddetto avviso.

Durante il procedimento di verifica, erano emersi nuovi elementi, in specie in merito alla quantificazione dei costi e proventi discendenti dalla cessione e/o utilizzo del trasferimento ed uso del marchio, nonché la presenza di proventi non dichiarati per i quali la contribuente non forniva esaustive giustificazioni, motivo per il quale l’ Agenzia emetteva altro avviso di accertamento riguardante le stesse materie e la stessa annualità di quello precedentemente annullato.

Si costituiva l’Ufficio chiedendo il rigetto del ricorso e sostenendo che nel caso di specie non era stato emesso un avviso integrativo, ma annullato il precedente avviso, viziato, e sostituito con uno corretto.

La C.T.P. di Varese, con sentenza n.223/03/2017, accoglieva il ricorso condannando l’Ufficio alle spese.

L’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Varese, con atto notificato a mezzo pec in data 01.06.2017 ed a mezzo racc. a.r. in data 17.07.2017, proponeva appello avverso detta sentenza chiedendone la riforma e conseguentemente la conferma integrale dell’avviso di accertamento impugnato.

L’Ufficio contesta la violazione delle norme in materia di autotutela e la falsa applicazione dell’art. 43 del DPR 600/73. Sostiene che i primi giudici hanno errato nel ritenere che l’avviso di accertamento impugnato rientrasse nella categoria dell’accertamento cosiddetto “integrativo”, dal momento che, nel caso di specie, si è in presenza, invece, di “ipotesi di autotutela sostitutiva”, precisando, a tale riguardo, che “l’accertamento sostitutivo deve essere emesso previo annullamento di quello sostituito”.

Sostiene che durante il procedimento di accertamento con adesione, a seguito del primo avviso, sono emersi ulteriori elementi che hanno portato ad una diversa e più approfondita valutazione di quelli già in possesso dell’Ufficio, con conseguente annullamento del primo avviso ed emanazione del secondo, corretto.

L’Ufficio, poi, eccepisce la violazione dell’art. 110 del TUIR da parte della C.T.P. di Varese per aver ritenuto che l’Ufficio non avrebbe dimostrato il “trasferimento del know-how e l’utilizzo del marchio”.

Richiamando le difese svolte in primo grado, sostiene di aver provato la presenza di “aree extra profitto che non risultano correttamente allocate in considerazione del profilo funzionale di rischio delle società controllate”, nonché di aver dimostrato “il trasferimento del know-how di E. s.p.a. alle società estere da essa controllate e l’utilizzo del marchio, da parte delle stesse e che questo sia avvenuto senza la corresponsione di alcuna royalty “.

L’Ufficio infine ripropone integralmente le difese proposte in primo grado in ordine alla eccepita illegittimità dell’avviso di accertamento per carenza del provvedimento di conclusione del procedimento di accertamento con adesione, alla illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione dell’art. 12, comma 1, L. 27.07.2000 n. 212 e falsa ed erronea applicazione dell’art. 39, comma 1, lettera D del DPR 600/73, nonché sulla insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle royalty.

Conclude per l’accoglimento dell’appello.

Con memoria depositata il 06.10.2017 si è costituita la E. s.p.a. eccependo, preliminarmente la inammissibilità dell’appello “per inesistenza della relativa notifica a mezzo pec per violazione degli artt. 16 e 17 del D.Lgs 546/1992”.

Sostiene l’appellata che, essendo stato il giudizio instaurato in primo grado in modalità cartacea e non telematica, non potesse essere notificato l’appello in via telematica in quanto la notifica “si perfeziona solo con la notifica al domicilio fisico eletto in primo grado”.

Sostiene poi che la successiva notifica cartacea sia avvenuta fuori dai termini di impugnazione previsti dall’art. 51 D.Lgs 546/92, dal momento che, nel caso di specie “non è applicabile la sospensione dei termini di cui all’art. 11, comma 9, D.L. n.5012017”.

Eccepisce la inammissibilità del secondo motivo di appello in ordine alla violazione dell’art. 110, comma 7 del TUIR in quanto l’Ufficio si sarebbe limitato “a richiamare pedissequamente le motivazioni riportate nell’avviso di accertamento e nelle memorie di controdeduzione del giudizio di primo grado, senza contestare, in modo specifico, le motivazioni dei giudici di prime cure”.

Nel richiamare le difese svolte in primo grado, contesta in toto i motivi di appello, sostenendo che la C.T.P. di Varese non è incorsa in alcun errore e che, seguendo l’insegnamento della Suprema Corte, sul punto, ha correttamente evidenziato “che l’avviso sostitutivo del precedente avviso, annullato in autotutela, non può basarsi sugli stessi elementi posti a fondamento del primo, valutati in maniera diversa”.

Per quanto attiene al merito, sostiene che correttamente i primi giudici hanno stabilito non esservi stato alcun trasferimento di know-how da parte della E. s.p.a. e che, in ogni caso, l’Ufficio non ha dimostrato né provato tale trasferimento avendolo solo “presunto sulla base di una ricostruzione ad origine incompleta ed errata del concetto di know-how”.

Lo stesso dicasi riguardo al supposto utilizzo del marchio E. da parte delle società controllate le quali, nell’anno 2012, possedevano un proprio marchio e una propria denominazione sociale distinti da quelli della E..

Anche per quanto attiene, poi il transfert pricing, ribadisce che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Ufficio, quest’ultimo non ha dimostrato e provato alcunché sul punto; tanto i giudici di merito che la Suprema Corte hanno stabilito, con giurisprudenza ormai consolidata, che ” l’Ufficio ha l ‘onere di provare lo scostamento tra il corrispettivo pattuito e il valore normale mentre sul contribuente incombe l’onere di dimostrare che i prezzi applicati sono avvenuti a valori di mercato”.

Conclude chiedendo, in via preliminare, dichiararsi inammissibile l’atto di appello e nel merito rigettarlo perché infondato.

In data 26.10.2017 l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Varese ha depositato memoria di replica per contestare le preliminari eccezioni di inammissibilità dell’appello proposte dalla E. s.p.a..

L’Ufficio sostiene che, contrariamente a quanto affermato dall’appellata “nessun punto del Decreto Ministeriale né tanto meno nei successivi decreti attuativi, si prevede un obbligo per chi ha utilizzato in primo grado la modalità tradizionale, di continuare ad utilizzarla”.

Ritiene, pertanto, che la notifica effettuata all’indirizzo pec del difensore costituito della E. s.p.a. è valida, tenuto conto altresì che ” in Lombardia …. il PTT è operativo a partire dal 15 aprile 2017 e da tale data è quindi consentito l’uso degli strumenti informatici e telematici”‘. Evidenzia poi che a partire dal 01.01.2016 è obbligatoria l’indicazione dell’indirizzo pec e la stessa equivale alla comunicazione di elezione di domicilio.

Contesta, poi, la non veritiera affermazione di mancata instaurazione del processo telematico dal momento che l’Ufficio “ha provveduto a depositare telematicamente l’atto di appello in data 29.06.2017 e l’appello stesso risulta iscritto al n. Rg. 3689/2017 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia”.

Per quanto attiene poi il nuovo appello notificato avvalendosi delle modalità tradizionali, ricorda che la Circolare 22/E del 28.07.2017 ha stabilito che “se la lite rientra tra quelle definibili, è automaticamente sospeso per sei mesi il termine – breve o lungo -per impugnare ….”.

Consegue che, spirando il termine breve, a seguito della notifica avvenuta 06.04.2017, nel periodo ricompreso tra il 24.04 e il 30.09.2017 e che la sospensione si applica a tutte le liti astrattamente definibili, anche il secondo appello notificato utilizzando la modalità tradizionale, è tempestivo.

In ordine alle altre eccezioni e alle controdeduzioni di parte appellata, richiama, a conforto delle proprie tesi, giurisprudenza tanto dei giudici di merito che della Suprema Corte.

Conclude chiedendo preliminarmente la riunione dei due procedimenti sub Rg. n.3689 e 4407/2017, il rigetto delle eccezioni preliminari proposte dalla E. s.p.a. e l’accoglimento dell’appello con conseguente riforma della sentenza impugnata e conferma dell’avviso di accertamento.

Alla udienza del 28.01.2019, sentiti per la contribuente l’Avv. M. che esibisce e deposita sentenza della C.T.R. Lombardia n.4712/2018, intervenuta tra le stesse parti e sulla medesima questione ma inerente l’anno di imposta 2011; per l’Ufficio la Dott.ssa E. la quale si è riportata alle proprie posizioni; udito il relatore, gli appelli sono stati decisi.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Si procede alla redazione della motivazione in forma semplificata ai sensi e per gli effetti dell’art. 36, comma 2, n.4, D.Lgs. n.546/1992.

Preliminarmente la Commissione, rilevato che i ricorsi in appello sub Rg. n.3689/2017 e n.4407/2017, tra le stesse parti, risultano proposti avverso la medesima sentenza della C.T.P. di Varese n.223/03/2017, provvede a riunire al ricorso sub Rg. 3689/2017 quello sub Rg. n.4407/2017.

In ordine alle preliminari eccezioni di inammissibilità dell’appello, sollevate dalla E. s.p.a. la Commissione, ritenendole infondate, le rigetta.

La Commissione, concordando convintamente con quanto stabilito dalla Suprema Corte – v. per tutte sent. Cass. Civ. SS.UU. n.23620 del 28.09.2018- ritiene che “in seguito alla introduzione del domicilio digitale previsto dall’art. 16, sexies del D.L. 179/2012, convertito con modifiche dalla L. n.221/2012, come modificato dal D.L. n.90/2014, convertito con modifiche dalla L. n.114/2014, è valida la notificazione al difensore presso l’indirizzo pec risultante dall’albo professionale di appartenenza”. A parere della Commissione la notifica dell’appello, effettuata ai difensori della parte privata i quali, essendo avvocati ed appartenenti ad un ordine professionale, devono obbligatoriamente disporre di un indirizzo di posta elettronica certificata sin dal novembre 2009, è valida a tutti gli effetti di legge.

La Commissione inoltre evidenzia che con la riforma del contenzioso tributario, attuata con il D.lgs 156/2015, si è previsto all’art. 16/bis del novellato D.Lgs. 546/92 che “le notificazioni tra le parti e i depositi presso la competente Commissione Tributaria possono avvenire in via telematica secondo le disposizioni contenute nel decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 23 dicembre 2013 n.163 e dai successivi documenti di attuazione”.

Nel caso in esame risulta che la notifica, da parte dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Varese è stata effettuata in una forma legislativamente prevista ed atta ad assicurare la conoscenza dell’atto da parte della E. s.p.a. essendo stati rispettati gli standard previsti dal D.M. del 04.08.2015.

La Commissione rileva, inoltre, che la difesa della E. s.p.a. si è limitata a sostenere solo che l’appello non potesse essere notificato in via telematica, essendo stato il giudizio in primo grado instaurato in modalità cartacea, non deducendo, però, alcun vizio sostanziale della notifica telematica.

La Commissione ritiene, pertanto, valida ed efficace la notifica telematica effettuata dall’Agenzia delle Entrate -Direzione Provinciale di Varese e di conseguenza valido ed ammissibile l’appello.

Anche l’altra eccezione sollevata dalla difesa della E. s.p.a. di inammissibilità del secondo motivo di appello “per insufficiente o mancata esposizione dei motivi specifici della impugnazione”, risulta a parere della Commissione infondato e privo di pregio in quanto l’appellante ha chiaramente evidenziato i motivi per i quali ha ritenuto errata la pronuncia dei primi giudici.

Passando all’esame dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Varese, la Commissione ritiene fondato il primo motivo relativo alla violazione delle norme in materia di autotutela, avendo i primi giudici, sul punto, errato nell’applicazione dell’art. 43 del DPR 600/73.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla E. s.p.a. e affermato dai primi giudici, la Commissione ritiene che nel caso in esame non si è in presenza di un accertamento c.d. “integrativo”, ma in una ipotesi di autotutela sostitutiva.

A parere della Commissione, che concorda con l’orientamento della Suprema Corte, l’A.F. abbia il potere di rinnovare l’accertamento previo, così come avvenuto nel caso di specie, provvedimento di autotutela che, con efficacia ex tunc, ha eliminato il precedente accertamento affetto da vizi di legittimità.

La Corte di Cassazione, con univoco e consolidato orientamento, ha stabilito, infatti, che l’avviso di accertamento emesso in sostituzione di altro precedentemente annullato, non presuppone la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, così come nel caso di accertamento integrativo, “ma può aver luogo anche sulla base di una diversa e più approfondita valutazione di quelli già in possesso de/I ‘Ufficio”. L’accertamento sostitutivo, quindi, “è in genere un nuovo atto sul medesimo rapporto su cui è intervenuto quello precedente, perché in relazione ad un nuovo oggetto, non assunto a proprio elemento dal primo. dispone un nuovo contenuto”.

Passando all’esame del merito della questione sottoposta all’esame del Giudice tributario, la Commissione ritiene l’appello dell’Ufficio infondato.

La Commissione, concordando con l’orientamento espresso con la sentenza della CTR Lombardia sez. I n.4712 del 2018, resa tra le stesse parti su fattispecie analoga ma per un diverso anno di imposta, ritiene che in ordine alle doglianze dell’Ufficio in tema di determinazione delle componenti del reddito imponibile, secondo i criteri dì cui all’art.110, comma 7, DPR 917/86, la E. spa abbia correttamente ritenuto che la norma de qua sia volta a valorizzare una divergenza tra il prezzo di scambio di beni o servizi, praticato nelle operazioni infragruppo effettuate fra E. s.p.a. e le sue controllate, e il prezzo che si sarebbe praticato, in regime di libera concorrenza, tra le imprese non collegate in alcun modo per lo scambio di beni e servizi della stessa specie di quelli di cui alle operazioni effettivamente realizzate tra le imprese del gruppo.

L’Agenzia delle Entrate, nel caso di specie ha solo presupposto che la società, nel trasferimento di propri semilavorati alle controllate estere, abbia omesso di valorizzare correttamente, nella quantificazione del prezzo, il trasferimento del know – how e l’utilizzo del marchio E..

Tanto però, a parere della Commissione, non è idoneo a determinare, ai sensi dell’art. 110, comma 7, DPR 917/86, una rettifica in aumento del reddito dichiarato dalla società.

L’individuazione dei componenti positivi di reddito, derivanti dal transfer pricing nelle operazioni infragruppo, così come correttamente affermato dalla società si fonda sulla verifica della conformità dei prezzi praticati dalla società residente ai prezzi “normali” di mercato, ossia, sulla congruità del corrispettivo percepito dalla contribuente rispetto al prezzo di scambio praticato in condizioni di libera concorrenza, tra imprese non collegata tra loro, per operazioni aventi ad oggetto analoghi beni o servizi.

La Suprema Corte, con orientamento univoco, vedesi per tutte la sentenza n.16399/2015, ha precisato quali siano i presupposti applicativi dell’art. 110, comma 7 TUIR, che consentono la rettifica del reddito imponibile, stabilendo altresì la ripartizione dell’onere probatorio tra contribuente e A.F..

Con la surrichiamata sentenza e con la successiva n.13387/2016 la Suprema Corte infatti ha stabilito che è onere dell’A.F. dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate e lo scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato, costituente il valore normale di riferimento.

Mentre con riferimento alla rettifica delle componenti reddituali negative del reddito, ossia dei costi di servizi o beni ceduti dalle società estere alla contribuente italiana, l’onere della prova ricade sulla contribuente, in quanto la questione involge non solo la prova dell’esistenza dei costi stessi, ma anche la dimostrazione dell’inerenza degli stessi all’attività svolta dall’impresa, per la determinazione delle componenti positive di reddito, così come è nel caso di specie, la Suprema Corte ha stabilito che “… incombe certamente sul/ ‘amministrazione finanziaria – secondo le regole generali in materia (art. 2697 c.c.)- l’onere di provare la fondatezza della rettifica da transfer price, ossia la fondatezza della pretesa fiscale azionata, con riferimento allo scostamento tra corrispettivo pattuito ed il valore normale dei beni o dei servizi scambiati” (Cass. n. 16399/2015).

A parere della Commissione l’A.F., nel caso di specie, si è limitata ad avanzare contestazioni inerenti al prezzo pagato dalle controllate alla capogruppo per l’acquisto dei suoi prodotti, senza tuttavia fornire la prova dell’inferiorità di tale corrispettivo rispetto al valore normale di mercato e, inoltre, non ha contestato le circostanze dedotte, documentate e provate dalla società.

La E. s.p.a. ha infatti provato e documentato quanto segue:

– tutte le società controllate possedevano nel 2012 un proprio marchio e una propria denominazione sociale, distinti da quelli di E. s.p.a., utilizzati entrambi bei propri rapporti commerciali; – in tutte le ipotesi di cessione di semilavorati e prodotti finiti, da parte della E.

– alle controllate, gli stessi prodotti non presentavano mai alcun marchio o denominazione registrata E. s.p.a.;

– il settore di riferimento dei prodotti di E. s.p.a. e delle società controllate attiene ad una dimensione B2B (Business to Business) e, pertanto, il cliente finale non è un consumatore ma un’azienda, generalmente produttrice di bevande, per la quale l’eventuale marchio E. s.p.a. ha scarso valore ed “appeal”, posto che la denominazione ed il marchio altro non rappresentano che un tradename utilizzato da E. per identificare sé stessa come società ed i prodotti della stessa, senza aggiungere alcun ulteriore beneficio tangibile ed intangibile.

La Commissione ritiene, pertanto, che l’appellante Agenzia non abbia assolto l’onere probatorio su di essa gravante.

Alla luce di quanto sopra, la Commissione respinge nel merito l’appello dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Varese e conferma, come da diversa motivazione in atti, l’accoglimento del ricorso proposto dalla E. s.p.a. con conseguente annullamento dell’avviso di accertamento impugnato.

La Commissione ritiene equo compensare tra le parti le spese del presente grado.

P.Q.M.

La Commissione Tributaria Regionale di Milano Sezione V, nel giudizio proposto dall’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Varese contro E. s.p.a. avverso la sentenza della C.T.P. di Varese n.223/03/2017 così provvede: ” Respinge nel merito l’appello dell’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Varese e conferma, come da diversa motivazione in atti, l’accoglimento del ricorso proposto dalla E. s.p.a. con conseguente annullamento dell’avviso dì accertamento impugnato. Compensa tra le parti le spese di questo grado”.
Milano, 28.01.2019