Corte di Cassazione – Sentenza n. 8645 del 7 maggio 2020

SENTENZA

sul ricorso 18334-2015 proposto da:

(OMISSIS);
– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS);
– controricorrente –

avverso la sentenza parziale n. 1123/2010 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 26/10/2010 nonche’ avverso la sentenza definitiva n. 633/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 11/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/12/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilita’ ed, in subordine, il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato (OMISSIS), difensore della ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il condominio di (OMISSIS), committente, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Genova la (OMISSIS) s.n.c., appaltatrice, per ottenere, in tesi, la risoluzione del contratto d’appalto per inadempimento, in subordine la riduzione del corrispettivo, oltre al risarcimento del danno.

Nella contumacia della societa’ convenuta il Tribunale riduceva il corrispettivo dell’appalto condannando la (OMISSIS) a restituire quanto pagatole in eccesso.

Quest’ultima proponeva appello lamentando di non aver avuto notizia della causa, essendo stato notificato l’atto di citazione in (OMISSIS), luogo diverso dalla sede legale della societa’, ubicata si’ nella ridetta via ma al n. c. (OMISSIS).

La Corte d’appello di Genova con sentenza non definitiva dichiarava inesistente detta notificazione, e ritenuto percio’ inapplicabile l’articolo 354 c.p.c., prevedendo quest’ultimo la rimessione della causa al primo giudice nella sola ipotesi di nullita’ della notifica, disponeva per la prosecuzione della causa innanzi a se’. Quindi, con sentenza definitiva la decideva in unico grado di merito, riducendo di poco l’importo al pagamento del quale la societa’ appaltatrice era stata condannata in primo grado.

Per la cassazione di entrambe le sentenze la (OMISSIS) proponeva ricorso, affidato a sette motivi (gli ultimi due reiterano erroneamente la numerazione del quinto mezzo).

Resisteva con controricorso il condominio di (OMISSIS).

Avviato alla trattazione camerale ex articolo 380-bis.1 c.p.c., il ricorso e’ stato rimesso in pubblica udienza, per provocare il contraddittorio sulla questione della rilevabilita’ d’ufficio dell’esatta qualificazione, in termini di inesistenza o di nullita’, della notifica della citazione di primo grado, questione che nessuna delle due parti aveva riproposto in questa sede di legittimita’.

Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimita’ dell’udienza pubblica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente va rilevata l’irrilevanza dell’apertura e della chiusura del fallimento della (OMISSIS) s.n.c., e di quest’ultimo in proprio, nelle more del presente giudizio di legittimita’, circostanza dedotta nella memoria ex articolo 378 c.p.c. di parte controricorrente. E’ noto, infatti, che l’intervenuta modifica della L. Fall., articolo 43 per effetto del Decreto Legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, articolo 41 nella parte in cui recita che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”, non comporta una causa di interruzione del giudizio in corso in sede di legittimita’ posto che in quest’ultimo, che e’ dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge (cosi’ e per tutte, n. 21153/10).

2. – Il primo motivo di ricorso assume la violazione degli articoli 354, 112 e 160 c.p.c. o (d’) “altra norma meglio vista”, in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 4. La Corte d’appello, sostiene parte ricorrente, dichiarata inesistente la notifica della citazione introduttiva del primo grado, avrebbe dovuto limitarsi a rilevare la nullita’ di tale processo e della sentenza del Tribunale, senza pronunciarsi sul merito della domanda. La sentenza impugnata avrebbe percio’ violato il principio del doppio grado di merito, e disatteso l’insegnamento di Cass. nn. 8608/06 e 19358/07, in base al quale, in caso d’inesistenza della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, non e’ data ne’ rimessione al primo giudice, ne’ decisione della causa nel merito. Pertanto, parte ricorrente chiede la cassazione senza rinvio delle due sentenze impugnate, ovvero, in subordine, “ove venisse ritenuta la mera nullita’ della predetta notifica, disporre ai sensi dell’articolo 354 c.p.c., la rimessione della causa davanti al Tribunale di Genova, quale giudice di primo grado” (cosi’, nelle conclusioni del ricorso).

3. – Il motivo e’ fondato nei limiti di tale richiesta di subordine.

Entrambe le parti non contestano l’affermazione della sentenza non definitiva secondo cui la notifica della citazione di primo grado sarebbe inesistente e non gia’ nulla. Esse controvertono, invece, sugli effetti giuridici (in particolare, la decisione della causa in unico grado di merito) che la Corte territoriale ne ha desunto.

Di qui l’interrogativo della formazione o meno d’un giudicato interno sull’inesistenza della notifica, e la questione, dipendente (ma in realta’ si tratta – come meglio infra – delle due facce di un’unica medaglia), se questa Corte possa qualificare altrimenti e d’ufficio il ritenuto difetto di notificazione.

Interrogativo che, a sua volta, chiama direttamente in causa la nozione di parte della sentenza, suscettibile come d’impugnazione autonoma cosi’ di acquiescenza tacita qualificata (o c.d. impropria) ex articolo 329 cpv. c.p.c. Il problema naturalmente si pone solo se ed in quanto il motivo d’impugnazione neppure in via implicita coinvolga la statuizione avente precedenza logico-giuridica, ed anzi mostri (almeno in tesi, come nella specie) di volerla mantenere ferma.

3.1. – L’articolo 329 cpv. c.p.c., sostituita alla nozione di capo, adoperata dall’articolo 486 c.p.c., comma 3, del 1865, quella piu’ ampia di parte della sentenza, predica la formazione progressiva del giudicato interno e, con esso, l’altrettanto selettiva formazione dell’oggetto del giudizio d’impugnazione (contribuendo cosi’ ad abbandonare la concezione dell’appello quale puro gravame). Cio’ avviene mediante una presunzione iuris et de iure di acquiescenza e dunque con un meccanismo che, a differenza di quanto previsto dal comma 1, opera a prescindere dalla volonta’ della parte acquiescente. Oltre a cio’ la norma di per se’ sola null’altro consente di dedurre, per cui spetta all’interprete elaborare a stregua del sistema le coordinate concettuali della nozione di parte della sentenza.

3.1.1. – La giurisprudenza di questa Corte, com’e’ noto, ha da sempre aderito all’impostazione che identifica la parte della sentenza nelle sole questioni, sia sostanziali che processuali, dotate di una propria autonomia e indipendenza, tali, cioe’, da potersene ipotizzare la decisione anche in un giudizio separato (v. nn. 8276/97, 9626/94, 533/79 e 3519/75) o, meglio ancora, tali che esse possano sussistere venendo meno le altre che la seguono (v. nn. 671/70, 1425/68 e 1122/67). E’ apparso subito chiaro, in altri termini, che il giudicato interno non si forma su ogni questione di fatto o di diritto su cui il giudice, nel dirimere il relativo contrasto, abbia espresso il proprio convincimento, ma solo su quelle statuizioni dotate di una propria e compiuta individualita’. Ne restano escluse, percio’, sia le mere argomentazioni, sia le esposizioni di un’astratta tesi giuridica, pur se servano a risolvere questioni strumentali rispetto all’attribuzione del bene controverso (v. nn. 9628/97 e 6757/01), sia i necessari presupposti logico-giuridici del singolo capo di pronuncia che sia stato impugnato (v. nn. 3089/83, 3603/79 e 3478/78, germinate da S.U. n. 3498/76). Ne consegue che l’impugnazione della pronuncia di merito coinvolge necessariamente anche il ragionamento giuridico – esatto o errato che sia – che la sostiene, lasciando libero il giudice dell’impugnazione di confermare la decisione anche sulla base di una diversa motivazione in diritto (cfr. n. 9628/97).

Costante l’indirizzo che ne e’ seguito, nel senso che la formazione della cosa giudicata (s’intende, in senso processuale) per mancata impugnazione su un determinato capo della sentenza investita dall’impugnazione, puo’ verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di gravame, perche’ fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri vengono meno, mentre, invece, non puo’ verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove quest’ultima sia oggetto del gravame (n. 9823/99, cui adde le successive nn. 8859/01, 20143/05, 10043/06, 4363/09, 4732/12 e 21566/17). Il medesimo principio e’ stato talvolta espresso con riferimento al collegamento stretto tra capo impugnato e capo non impugnato (v. n. 4934/10) o al nesso di consequenzialita’ tra l’uno e l’altro (cfr. n. 18713/16), o ancora affermando che costituisce capo autonomo della sentenza solo quello che risolva una questione controversa tra le parti, caratterizzata da una propria individualita’ e una propria autonomia, si’ da integrare, in astratto, gli estremi di un decisum affatto indipendente, ma non anche quello relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (v. nn. 2379/18 e 22863/07).

Si tratta, dunque, di diverse coniugazioni d’un medesimo principio in se’ indiscusso, ma alle cui basi teoriche conviene almeno accennare. Se parti della sentenza sono (anche) le singole questioni decise che avrebbero potuto essere oggetto di apposita e separata pronuncia e che non soffrono la soluzione delle questioni successive, deve coerentemente ricondursi la preclusione in oggetto alle sole interlocuzioni suscettibili di sentenza (definitiva o non secondo l’esito), vale a dire alle sole questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito intese nella loro interezza e nella funzione che svolgono ai fini dell’ordinato progredire del processo. La c.d. acquiescenza tacita, pertanto, trova applicazione con riguardo alle sole parti della decisione impugnata che hanno respinto una domanda o risolto una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito, non quando il soccombente non abbia espressamente contestato una qualificazione giuridica, non potendosi riconoscere alla questione del nomen iuris carattere autonomo rispetto all’impugnazione specificamente proposta (cfr. n. 6341/88, sull’impugnazione relativa alla ricostruzione d’un determinato rapporto contrattuale; analogamente, v. n. 2411/72). In maniera ancor piu’ puntuale e’ stato osservato che nel vigente sistema civile, fondato non su azioni tipiche, bensi’ su diritti soggettivi, la pronuncia sulla qualificazione giuridica, sul nomen iuris del rapporto controverso o sulla legge applicabile non sono possibile oggetto di sentenza non definitiva. Pertanto, tali pronunce non possono dar vita ad un giudicato o ad una preclusione per acquiescenza in corso di impugnazione parziale, durante la soluzione di una questione giuridica strumentale rispetto all’attribuzione del bene della vita controverso (cosi’ la n. 18/98).

Ne risulta rinvigorito il necessario legame con l’articolo 187 c.p.c., commi 2 e 3 e articolo 279 c.p.c., senza il quale l’interpretazione dell’articolo 329 cpv. c.p.c. vaga per terre incognite, alla merce’ di impressioni arbitrarie e di soluzioni estemporanee.

3.1.2. – Procedendo da un diverso angolo visuale, altra (e del pari ferma) giurisprudenza di questa Corte perviene al medesimo risultato di sottrarre alla disponibilita’ delle parti, in sede d’impugnazione, le premesse logiche del ragionamento giuridico seguito nella sentenza impugnata.

E’ costante l’affermazione per cui il principio del tantum devolutum quantum appellatum non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma, rispetto a quella prospettata dalle parti, nonche’ in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dalla parte (v. nn. 5957/18, 19424/13, 6757/11, 8479/02 e 475/02); e che per il principio iura novit curia (articolo 113 c.p.c., comma 1), il giudice puo’ assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonche’ all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, ferma restando la preclusione di una decisione basata non gia’ sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa (v. nn. 8645/18, 12943/12 e 25140/10), con immutazione della fattispecie e conseguente violazione – in ultra ovvero extrapetizione – del principio di correlazione tra il chiesto ed il pronunciato ex articolo 112 c.p.c. (cfr. 11629/17).

Tali diuturne testimonianze d’un margine d’intervento officioso, che il potere dispositivo delle parti condiziona a monte nell’an dell’impugnazione, non anche a valle nel quo modo della decisione, godono di solide basi. L’essenza della giurisdizione risiede non gia’ nel risolvere purchessia la controversia, ma nel dirimerla attraverso lo ius dicere, cioe’ individuando ed interpretando correttamente le norme deputate a regolare una determinata fattispecie. Il che rientra nei compiti istituzionali del giudice, tenuto a rispettare parametri logico-giuridici su cui la condotta delle parti non puo’ interferire. A maggior ragione la funzione nomofilattica, che l’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario assegna alla Corte di cassazione, nell’implicare l’esportazione dei precedenti a futuri casi simili, esige formulazioni dotate di coerenza teoretica; la quale, a sua volta, non puo’ essere rimessa alle parti ne’ quale onere ne’ quale potere (come del resto conferma la funzione correttiva della motivazione in diritto, che la Corte esercita d’ufficio nell’ipotesi di cui all’articolo 384 c.p.c., u.c.).

Collegare l’effetto preclusivo di cui all’articolo 329 cpv. c.p.c. alla mancata impugnazione di affermazioni giuridiche isolatamente considerate, scisse cioe’ dal complessivo ragionamento svolto nella sentenza impugnata nel richiamare e applicare le norme di diritto, significherebbe vincolare il giudice dell’impugnazione non alla domanda – cioe’ all’oggetto sostanziale del processo -, ma ad un’opzione ermeneutica, ancorche’, in ipotesi, incoerente con gli effetti che l’una parte o l’altra intendano lucrare a proprio vantaggio.

(Per esemplificare: applicate in primo grado le norme sull’interruzione della prescrizione al termine di dieci anni dal compimento dell’opera, previsto dall’articolo 1669 c.c., comma 1, ove in appello le parti, acquiescenti su tale erronea applicazione, discutessero soltanto dell’idoneita’ interruttiva di un determinato atto, il giudice dell’impugnazione dovrebbe astenersi dal rilevare la non corretta premessa giuridica ed emettere scientemente una sentenza errata in rapporto alla fattispecie. Con la paradossale conseguenza – nel caso di impugnazione per cassazione – che potere correttivo e funzione nomofilattica sarebbero esercitati al contrario, inoculando un virus nella circolazione dei precedenti).

Aprire all’idea di un uso “negoziale” della legge, impedendone in sede di impugnazione la corretta identificazione e/o interpretazione ove non oggetto di critica ad opera delle parti, equivarrebbe a minare le basi stesse del controllo di legittimita’ (e non solo di esso).

3.2. – L’inevitabile vaghezza dei requisiti di “autonomia”, “indipendenza”, “propria individualita’” della questione, contraltare dell’altrettanto generico concetto di “parte della sentenza” contenuto nell’articolo 329 cpv. c.p.c., ha indotto la giurisprudenza di questa Corte Suprema, sin dalla fine degli anni âEuroËœ90 del secolo scorso (e in adesione ai risultati raggiunti in materia da autorevole dottrina) ad un piu’ scientifico approccio al tema, al fine di stabilire con maggior precisione quale sia la statuizione minima suscettibile di acquisire la stabilita’ del giudicato interno.

Si e’ ormai consolidato l’indirizzo – inaugurato dalla sentenza n. 10832/98 e ripreso, dopo un lungo intervallo, dalla n. 16583/12 e da allora proseguito senza interruzioni fino ad oggi (v. nn. 2217/16, 12202/17, 16853/18 e 10760/19) – secondo cui ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unita’ suscettibile di acquisire la stabilita’ del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto, sussumibile sotto una norma, cui il giudice ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di un apposito motivo d’impugnazione, quest’ultima, ove motivata in ordine anche ad uno soltanto di essi, riapre la cognizione del giudice dell’impugnazione sull’intera statuizione.

Pertanto, affinche’ questi possa ricostruire i fatti in maniera autonoma rispetto a quanto prospettato dalle parti, e/o procedere ad una diversa loro qualificazione giuridica, non occorre un’apposita censura sugli uni o sull’altra, ma e’ sufficiente che sia contestato anche soltanto l’effetto finale che il giudice a quo ha ne tratto.

Ed e’ questo il risultato ultimo cui mirano tutti gli innanzi descritti orientamenti giurisprudenziali, che si saldano e si completano fra loro senza alcuna contraddizione.

3.3. – Accanto a tali indirizzi, nella giurisprudenza di questa Corte Suprema ne vive ed opera un altro, il quale in apparente antitesi afferma, invece, che il giudicato puo’ formarsi anche sulla qualificazione giuridica di un rapporto, se questa abbia formato oggetto di contestazione e sul punto deciso, costituente antecedente necessario ed indispensabile della pronuncia sulla domanda, la parte interessata non abbia proposto impugnazione, non potendo il giudice d’appello riesaminare la questione per il limite derivante dal tantum devolutum quantum appellatum (v. nn. 10053/13, 12562/02, 5702/01, 7260/96, 1473/95, 9292/92).

Dal che dovrebbe desumersi, quale ipotetico punto di sintesi tra l’una e l’altra soluzione del problema in esame, che nei giudizi d’impugnazione il potere di (ri)qualificare d’ufficio un rapporto o una data fattispecie venga meno allorche’ la qualificazione giuridica sia stata controversa, e come tale sia stata discussa dalle parti, decisa dal giudice ed abbia, quindi, formato oggetto di successiva acquiescenza ex articolo 329 cpv. c.p.c.

Solo che, a ben vedere, in tal modo ne risulterebbe influenzata ed ampliata la stessa nozione di parte della sentenza. Includendovi anche le qualificazioni giuridiche in quanto controverse, discusse e decise, parte di sentenza diverrebbe ai fini in parola ogni frammento di decisione sul materiale controverso (cioe’ non pacifico), non solo in diritto ma anche in fatto, essendo il criterio adottato perfettamente applicabile anche in ipotesi di mera quaestio facti. Non solo, ma ne risulterebbe reciso anche il collegamento, sopra richiamato, fra detta nozione e le questioni suscettibili di pronuncia non definitiva. Sicche’ il contrasto tra i due orientamenti sembrerebbe irresolubile.

In realta’, se si esaminano le singole fattispecie in cui e’ maturato il suddetto indirizzo, che in apparenza vorrebbe suscettibile di giudicato interno anche la sola individuazione della norma applicabile, ci si accorge che le cose stanno altrimenti, e che nelle varie ipotesi considerate la preclusione da giudicato si e’ formata su di un’intera questione che includeva un nomen iuris controverso, ma non si esauriva in esso, comprendendo anche l’effetto che il giudice di volta in volta ne aveva tratto.

Nel caso della pronuncia n. 10053/13 la preclusione da acquiescenza c.d. impropria e’ stata riferita alla natura non condominiale ma di semplice comunione del contesto proprietario, la qual cosa aveva escluso l’applicazione del termine di convocazione dell’assemblea, di cui all’articolo 66, disp. att. c.c., a favore di un termine minore, sulla cui insufficienza soltanto si era poi fondato l’appello. Ma allora e’ chiaro che la questione preclusa era comprensiva dell’effetto (l’applicazione di un termine diverso da quello di cui all’articolo 66 dis. att. c.c.) di una qualificazione a monte, sicche’ il giudicato non riguardava solo quest’ultima (comunione e non condominio), ma l’intera ed autonoma questione dell’esistenza, nel caso controverso, del suddetto termine legale di convocazione dell’assemblea dei proprietari.

Nella sentenza n. 5702/01 il giudicato interno sulla natura reale e non contrattuale dell’azione esercitata (avente ad oggetto la “restituzione” di una porzione di terreno) si era formato sulla statuizione di rigetto dell’eccezione di prescrizione, trattandosi, appunto, di azione imprescrittibile; sicche’, non contestato in appello il diniego di tale effetto estintivo, correttamente e’ stata ritenuta non piu’ discutibile la premessa realita’ dell’azione che tale decisione sorreggeva.

Nel caso della sentenza n. 12562/02 il giudicato interno riguardava non la sola e mera qualificazione del rapporto sostanziale come vendita, e non appalto, ma anche l’effetto che il giudice di primo grado ne aveva tratto, ossia la decadenza dell’azione di garanzia per vizi, essendosi l’appellante limitato ad invocare nel secondo grado di giudizio la diversa tutela aquiliana ex articolo 1669 c.c.

La sentenza n. 7260/96, nel rigettare un motivo d’impugnazione inteso a far dichiarare tardiva un’azione di nuova opera (ante lege n. 353 del 1990), che il giudice di merito aveva, invece, qualificato di danno temuto, ha rilevato, con un mero obiter (essendo la decisione basata sull’irrilevanza della distinzione, visto che la causa era proseguita nel merito, senza l’adozione di provvedimenti interinali), che anche sulla qualificazione giuridica data all’azione dal giudice si forma il giudicato, “quando tale qualificazione abbia condizionato la impostazione e la definizione dell’indagine di merito e la parte interessata abbia accettato sul punto la decisione, omettendo di impugnarla al riguardo e svolgendo anzi le proprie difese sul presupposto di quella qualificazione” (cosi’, in motivazione).

Ancora, con la sentenza n. 1473/95 e’ stato ritenuto il giudicato interno sulla qualificazione del marchio come “forte”, piuttosto che “debole”; ma quest’ultima non e’ una qualificazione giuridica, bensi’ la sintesi (di conio giurisprudenziale) del grado di resistenza del marchio rispetto ai segni consimili, e dunque un effetto della disciplina legale che ne regola l’ambito di protezione.

Nella sentenza n. 9292/92 il giudicato sulla qualificazione del rapporto (somministrazione piuttosto che pluralita’ di vendite) includeva il non contestato effetto di recesso, essendo stata appellata la sentenza di primo grado solo con riguardo alla misura del preavviso e al quantum del risarcimento, sicche’ l’appellante aveva svolto i propri motivi d’impugnazione proprio sul presupposto dell’effetto (il recesso) che il giudice di primo grado aveva connesso a quella qualificazione giuridica.

Come si vede, anche nelle ipotesi esaminate da tali precedenti il giudicato interno si e’ formato non gia’ sulla sola qualificazione giuridica in se’ e per se’ sola considerata, ma su di una questione piu’ ampia che di quella qualificazione include l’effetto, sostanziale o processuale secondo i casi. E cio’ conferma che l’articolo 329 cpv. c.p.c. riguarda sempre una questione unitariamente considerata, e non gia’ le sue singole frazioni, logico-giuridiche o fattuali che siano, indipendentemente dal contrasto registratosi fra le parti.

3.4. – Quanto fin qui considerato sulla statuizione minima suscettibile di acquisire la stabilita’ del giudicato interno, non puo’ che reagire sul concetto di soccombenza.

Anche una semplice questione la cui decisione non produca soccombenza tecnica (per il fatto di non coincidere con un capo di domanda) puo’ tradursi in parte di sentenza soggetta a specifica impugnazione, pena la sua intangibilita’ endoprocessuale; ma cio’ sempre a patto che essa possa qualificarsi come “autonoma” e/o “indipendente” rispetto alle successive parti della sentenza stessa. Ne deriva che la soccombenza su semplice questione, che sola puo’ legittimare l’impugnazione incidentale condizionata (cfr. ex multis e da ultimo, la n. 18648/18), e’ profilata dalla latitudine che si assegna alla nozione di parte di sentenza. Di fronte alla decisione di una sub-questione (o, se si preferisce, di una questione non autonoma) non si da’ soccombenza, a nulla rilevando che nel risolverla il giudice abbia aderito alla tesi sostenuta dall’una parte e confutato quella caldeggiata dall’altra. L’assunto contrario, che da tale esito vorrebbe ricavare la nozione di soccombenza e il correlato onere d’impugnativa, e’ pertanto da ricusare, traducendosi in una sostanziale petizione di principio, frutto dell’inversione logica dei termini del problema. Non senza sottolineare che, atomizzando a dismisura, ai fini dell’articolo 329 cpv. c.p.c., ogni passaggio del procedimento critico-motivazionale che volga a favore dell’una o dell’altra parte, il risultato pratico sarebbe quello di dilatare la nozione di capo o parte di sentenza, estendendola a qualsivoglia affermazione ivi contenuta sugli aspetti fattuali o giuridici controversi. Il che e’ l’esatto contrario di quanto i costanti indirizzi giurisprudenziali fin qui richiamati hanno inteso affermare.

3.5. – Il caso in esame e’ reso peculiare dal comune interesse delle parti a mantenere ferma la statuizione sull’inesistenza della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado: la societa’ ricorrente per ottenere una decisione conforme ai precedenti di cui alle sentenze nn. 8608/06 e 19358/07 (cui adde la n. 21219/16), le quali escludono che in tal caso il giudice d’appello possa decidere la causa in unico grado di merito, dovendo egli definirla in rito con la dichiarazione di nullita’ del processo e della sentenza di primo grado; il condominio controricorrente per evitare che, ritenuta invece la nullita’ di detta notificazione, scatti di riflesso l’annullamento della sentenza impugnata e la rimessione della causa al primo giudice, in base alla piana applicazione dell’articolo 354 c.p.c., comma 1 e articolo 383 c.p.c., comma 3.

3.5.1. – Le modalita’ che hanno accompagnato la notifica della citazione di primo grado, eseguita in un luogo diverso da quello che identifica la sede legale della societa’ (OMISSIS), costituiscono il fatto processuale sulla cui base la Corte d’appello ha formulato il giudizio d’inesistenza della notificazione stessa.

Il quale ultimo giudizio, pero’, non costituisce l’elemento terminale – id est, l’effetto conclusivo – di un’autonoma statuizione impugnabile.

3.5.1.1. – Valga in primis l’argomento a contrario. Opinando altrimenti, i successivi effetti processuali che il giudice d’appello ne ha tratto – impossibilita’ di remissione della causa al primo giudice e decisione della lite in unico grado di merito – non sarebbero ricollegabili ad alcun’altra autonoma e successiva unita’ decisoria; ovvero, ed altrettanto contraddittoriamente con le premesse sull’interpretazione dell’articolo 329 cpv. c.p.c., essi costituirebbero da soli una statuizione priva sia del fatto sia della norma, poiche’ non composta da nessun altro fatto processuale e da nessun’altra norma che non siano quelli della sequenza precedente.

Per contro, e’ palese che tali effetti derivino in via diretta e immediata proprio e solo dalla riconduzione del fatto processuale (la concreta attivita’ di notificazione svolta) alla figura dell’inesistenza, antecedente logico-giuridico senza l’esplicitazione del quale essi risulterebbero privi di senso e di giustificazione. Sicche’ l’inesistenza, anche a volerla supporre come effetto dell’applicazione di una norma, non potrebbe scindersi dagli effetti ulteriori che il giudice ne ha tratto senza il tramite di nessun’altra attivita’ valutativa. L’una (l’inesistenza) condivide con gli altri (gli effetti sul processo) la stessa scaturigine fattuale e giuridica, rientrando a pieno titolo, pertanto, nella medesima statuizione minima. Non e’ per nulla necessario, invero, che questa debba concludersi con un solo effetto piuttosto che con piu’ effetti tra loro pari ordinati.

3.5.1.2. – In secondo luogo, deve rilevarsi che l’inesistenza, non diversamente dalla nullita’ di un atto processuale, e’ anch’essa una “qualificazione” giuridica (con le precisazioni di cui infra) che il giudice opera per trarne uno o piu’ effetti concreti sui themata decidenda sostanziali e/o processuali.

Per comprendere (ai limitati fini in oggetto) il nesso tra qualificazione giuridica e relativi effetti, vale distinguere tra atti di acquisizione probatoria e atti d’impulso processuale, ivi includendo le relative notifiche; e limitarsi momentaneamente alla figura della nullita’. Per gli atti di acquisizione probatoria e’ sufficiente la dichiarazione d’invalidita’, che di per se’ produce l’effetto ablativo (salvo, poi, l’eventuale applicazione dell’articolo 162 c.p.c., comma 1); sicche’ qualificazione ed effetti necessari di essa, pur concettualmente distinti, finiscono per sovrapporsi. Per gli atti d’impulso processuale e le relative notificazioni, la pronuncia di nullita’ non e’, invece, esaustiva. Essa si basa su di una disciplina ad hoc che reagisce sul processo attraverso la mediazione di un’ulteriore attivita’ del giudice, che ne tragga l’effetto ordinatorio (rinnovazione) o dichiarativo (sentenza definitiva in rito). Scissa dal quale, la pronuncia di nullita’ costituisce un’affermazione tronca e non gia’ conchiusa, occorrendo che se ne espliciti la ricaduta sul rapporto processuale.

In maniera analoga opera l’inesistenza, nel senso che per gli atti d’impulso processuale e le relative notificazioni essa non si esaurisce nell’eliminazione mentale dell’atto, ma impone al giudice di declinarne gli effetti. Con l’aggravio costituito da cio’, che la mancanza di una disciplina positiva rende questi ultimi ancor piu’ opinabili e suscettibili di variabile decisoria.

La migliore conferma che la dichiarazione d’inesistenza puo’ non essere, per cosi’ dire, di per se’ sola parlante ed efficiente, e’ data proprio dalla presente vicenda processuale, in cui ognuna delle parti invoca a proprio favore il dictum d’inesistenza della notificazione per giungere, poi, a conclusioni opposte.

3.5.2. – Potrebbe obiettarsi che l’inesistenza non e’ una qualificazione giuridica stricto sensu, giacche’ quest’ultima implica un’attribuzione legale di significato. Nessuna norma, invece, la prevede e la disciplina, tant’e’ che non manca in dottrina chi parla al riguardo di “inqualificazione”. E si potrebbe completare il discorso affermando che l’inesistenza, proprio per il suo non identificarsi con una norma positiva, altro non potrebbe essere se non un effetto dell’applicazione di (altre) norme; col risultato che la statuizione minima consterebbe, nella specie, dell’attivita’ notificatoria svolta (fatto processuale), della riconduzione di essa sotto la previsione dell’articolo 145 c.p.c., comma 2, (norma) e dell’inesistenza che il giudice ne ha dedotto per differenza da tale modello legale (effetto).

In disparte quanto osservato supra e a contrario circa gli effetti ulteriori (impossibilita’ di remissione della causa al primo giudice e decisione della lite in unico grado di merito), che il giudice d’appello ha desunto dall’affermata inesistenza della notificazione, e non da altro, detta replica non supera indenne una verifica a livello di logica giuridica. Nella materia processuale la nozione d’inesistenza scaturisce dalla necessita’ epistemica di regolare il confine della nullita’, designando i casi in cui l’atto processuale deve intendersi mancante, di guisa che non se ne puo’ predicare neppure il vizio. Esigenza, questa, insopprimibile ove si consideri che, per contro, il proprium della nullita’ processuale (diversamente da quanto avviene – di regola – per quella sostanziale) risiede in cio’, che l’atto invalido continua a produrre gli effetti suoi propri finche’ il giudice non lo dichiara nullo, e che, pertanto, l’invalidita’ non resiste al giudicato interno.

Se dunque in ambito processuale la categoria dell’inesistenza dell’atto, benche’ non prevista dal legislatore, scaturisce per via di negazione (non dalla singola norma che diversamente sarebbe applicabile, ma) dal sistema stesso ed e’ dotata di una propria necessitata rilevanza giuridica o, se si vuole, giudiziale (lo dimostra la vasta giurisprudenza formatasi al riguardo); se, dunque, tutto cio’ e’ vero, va da se’ che essa non e’ l’effetto dell’applicazione dell’articolo 145 c.p.c., comma 2, ma e’ la norma non scritta che designa la situazione terza tra validita’ e nullita’ dell’atto. Detto articolo, al pari d’ogni altra norma sulle notificazioni, suppone l’atto processuale e ne delinea i requisiti di forma-contenuto ad validitatem, sicche’ il relativo scrutinio non puo’ che risolversi nell’alternativa tra validita’ e invalidita’ dell’atto stesso. Ne deriva che affermare che una notifica e’ inesistente non e’ trarre un effetto da una disposizione positiva, ma al contrario richiamare un’autonoma regula iuris, la cui origine epistemologica non osta a che il giudice ne ricavi gli effetti ai fini del procedere e del decidere, al pari di quanto avverrebbe ove egli applicasse una norma scritta.

4. – Per le considerazioni svolte e’ da escludere, nel caso specifico, la formazione d’un giudicato interno sull’affermata inesistenza della notifica della citazione di primo grado, ancorche’ non oggetto d’una propria e autonoma censura. Di riflesso, se ne impone la verifica d’ufficio.

Tale notificazione, a sua volta, essendo stata eseguita in un luogo diverso dalla sede legale, e nel quale non e’ dedotto che si svolgesse in maniera continuativa l’attivita’ d’impresa della societa’ destinataria, deve giudicarsi nulla e non gia’ inesistente. Infatti, in base al noto arresto di S.U. n. 14916/16, l’inesistenza della notificazione, in base ai principi di strumentalita’ delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, va ravvisata nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attivita’ priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformita’ dal modello legale nella categoria della nullita’. Ne restano esclusi, prosegue detta sentenza, solo i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, cosi’ da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioe’, in definitiva, omessa.

4.1. – Di conseguenza, entrambe le sentenze impugnate vanno cassate – quella definitiva per l’effetto espansivo esterno di cui all’articolo 336 cpv. c.p.c. – e, applicati l’articolo 354 c.p.c., comma 1 e articolo 383 c.p.c., comma 3, la causa va rinviata al Tribunale di Genova, quale giudice di primo grado.

5. – L’accoglimento, per quanto di ragione, del primo motivo, assorbe l’esame di tutte le restanti censure, incentrate su critiche di merito alla sentenza definitiva.

6. – Il giudice di rinvio provvedera’ anche alle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo, assorbiti i restanti, cassa le sentenze impugnate e rinvia la causa al Tribunale di Genova, in diversa composizione, il quale provvedera’ anche sulle spese di cassazione.