Corte di Cassazione – Sentenza n. 22167 del 5 settembre 2019

SENTENZA

sul ricorso 29542-2016 proposto da:
P.F., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARILENA VICICONTE;
– ricorrente –
contro

COMUNE DI FIRENZE, EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA (OMISSIS);
– intimati –

nonchè da:
COMUNE DI FIRENZE in persona del Sindaco N.D., domiciliato ex lege in ROMA,
presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato ANDREA SANSONI;
– ricorrente incidentale –

contro
P.F., EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA (OMISSIS);
– intimati –

avverso la sentenza n. 1845/2016 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il
12/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal
Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto,
che ha concluso per il rigetto del ricorso principale assorbito il ricorso incidentale
condizionato;
udito l’Avvocato MARIA IMMACOLATA AMOROSO per delega.
Svolgimento del processo
1. Nel 2007 il Comune di Firenze irrogò a P.F. due sanzioni amministrative per
altrettante violazioni del codice della strada, per l’importo complessivo di Euro
239,70.
Rimaste impagate le suddette sanzioni, il 12.2.2010 il Comune di Firenze notificò a
P.F. una cartella di pagamento, per recuperare coattivamente il suddetto importo.
2. In data non indicata nè nella sentenza, nè nel ricorso, nè nel controricorso, P.F.
propose opposizione dinanzi al Giudice di pace di Firenze avverso la suddetta
cartella esattoriale.
A fondamento dell’opposizione dedusse:
-) di non avere mai ricevuto la notifica dei due verbali accertamento dell’infrazione;
-) che comunque la notifica di essi era viziata sotto vari aspetti: sia perchè eseguita
da un privato, e non dal messo comunaleò; sia perchè eseguita ai sensi dell’art. 140
c.p.c., senza che il piego fosse depositato nella casa comunale, ma in un luogo
diverso; sia perchè l’avviso dell’avvenuto deposito del piego venne spedito al
destinatario da un privato.
3. Con sentenza 7523 del 2012 il Giudice di pace di rigettò la domanda.
Il Tribunale di Firenze, con sentenza 12.5.2016 n. 1845, rigettò il gravame proposto
da P.F..
Ritenne il Tribunale che la notifica era stata eseguita validamente da un messo
comunale, per tale dovendosi intendere anche il soggetto privato cui il Comune
abbia conferito apposito incarico; che la spedizione dell’avviso di cui all’art. 140
c.p.c. poteva essere compiuta anche da un privato, cui la p.a. avesse conferito tale
incarico; che il deposito del piego era avvenuto nel luogo a ciò deputato
dall’amministrazione comunale, a nulla rilevando che fosse diverso dalla sede
storica del Comune di Firenze, in Palazzo Vecchio; che l’avviso di ricevimento della
raccomandata di comunicazione dell’avvenuto deposito del piego nella casa
comunale non presentava vizi formali di sorta.
4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da P.F., con ricorso
fondato su tre motivi ed illustrato da memoria.
Ha resistito il Comune di Firenze con controricorso, e proposto ricorso incidentale
condizionato.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la
violazione dell’art. 140 c.p.c..
Sostiene che il Tribunale ha errato nel ritenere valida la notifica effettuata ai sensi
dell’art. 140 c.p.c., nonostante il deposito del piego, non potuto consegnare per
temporanea assenza del destinatario, fosse avvenuto non nella casa comunale, ma
“in un ufficio privato indicato come sede sussidiaria della Casa del Comune di
Firenze”.
Deduce che l’art. 140 c.p.c., là dove stabilisce che il piego non potuto consegnare
sia depositato nella “casa del comune”, non può che essere “un luogo pubblico
ufficiale, certo e stabile, non certo un ufficio privato estemporaneamente indicato in
un provvedimento” dell’amministrazione comunale.
Ne trae la conclusione che, non essendo ritualmente avvenuta la notifica dei verbali
di contestazione (o accertamento)e delle violazioni al codice della strada, ne era
derivata la nullità della cartella esattoriale su quei verbali fondata.
1.2. Il Comune di Firenze ha eccepito l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, “in
quanto contenente doglianze, nonchè riferimenti a fatti e circostanze assenti nel
ricorso originario”.
Sostiene l’amministrazione controricorrente che la questione della nullità della
notifica del verbale di contestazione (o accertamento)e, derivante dal deposito del
piego in un luogo diverso dalla casa comunale, venne sollevata dall’odierno
ricorrente soltanto all’udienza di discussione del giudizio di primo grado, e perciò non
esaminata dal giudice di pace, che la ritenne tardiva.
Il Tribunale, invece, esaminò la questione nel merito e la rigettò, ma non avrebbe
potuto farlo a causa della tardività con cui venne introdotta nel giudizio.
1.3. L’eccezione è inammissibile.
Se, infatti, il giudice d’appello esamina e decide una questione tardivamente
introdotta, chi intenda dolersi di quest’errore, ancorchè vittorioso all’esito del giudizio
di appello, in sede di legittimità non può reintrodurre la questione con una semplice
eccezione, ma deve proporre appello incidentale sul punto, in virtù del principio di
conversione delle nullità in motivi di impugnazione: principio del quale la stessa
amministrazione comunale si dimostra del resto edotta, avendo per l’appunto
proposto un appello incidentale esattamente coincidente con l’eccezione di
inammissibilità sollevata alle pagine 4 e 5 del proprio ricorso.
1.4. Nel merito, il primo motivo di ricorso è infondato.
Circostanze di fatto pacifiche, di cui non è adeguatamente contestata la rituale
acquisizione al materiale di causa, sono le seguenti:
-) la notificazione al debitore del verbale di accertamento dell’infrazione al codice
stradale avvenne ai sensi dell’art. 140 c.p.c.;
-) a causa dell’assenza del destinatario, il piego venne depositato in via (OMISSIS);
-) il luogo di deposito del piego non fu la sede storica del Comune di Firenze
(Palazzo Vecchio), ma un luogo indicato dall’amministrazione comunale come “casa
comunale” sussidiaria, a tal fine designata con determinazione dirigenziale del
10.10.2005 n. 8946;
-) la suddetta determinazione dirigenziale venne adottata due anni prima della
notifica dei verbali di contestazione (o accertamento)e dell’infrazione.
1.5. La notifica effettuata con le suddette modalità è valida ed efficace.
Il piego da notificare, infatti, è stato depositato in un luogo designato dalla stessa
amministrazione comunale come equipollente alla “casa comunale”, e tanto basta
per escludere il denunciato vizio di notifica.
Non è infatti inibito all’amministrazione comunale designare quali “case comunali”
luoghi ulteriori ed anche plurimi rispetto al municipio; ed ove l’amministrazione si
avvalga di tale facoltà, il luogo a tal fine designato sarà a tutti gli effetti di legge
equipollente alla “casa comunale”.
1.6. Tanto si desume dall’interpretazione storica e da quella sistematica del testo
normativo.
L’espressione “casa comunale”, nell’ordinamento postunitario, comparve per la
prima volta nell’art. 173 del R.d. 14.12.1865 n. 2641 (“Regio Decreto col quale è
approvato il regolamento generale giudiziario per l’esecuzione del codice di
procedura civile, di quello di procedura penale, e della legge sull’ordinamento
giudiziario”), il quale stabiliva che “i conciliatori tengono le ordinarie loro udienze
nella casa comunale o in quell’altra che sia dal municipio destinata”.
Già nel regolamento di procedura del 1865, dunque, si lasciava al Comune la facoltà
di destinare un luogo diverso dalla casa comunale a sede degli uffici di conciliazione.
Analogamente, il R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 9 (“che approva il regolamento di
procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato”), nel disciplinare
le notificazioni, stabiliva che “ove nessuno si trovi nell’abitazione, o in caso di rifiuto
di ricevere il ricorso che si notifica, l’ufficiale giudiziario o il messo comunale lascia
avviso, in carta libera, affisso alla porta dell’abitazione e deposita la copia dell’atto
nella casa comunale o la consegna al sindaco o a chi ne fa le veci, o all’impiegato
delegato a ricevere gli atti”.
Analoga previsione era contenuta nell'”Annesso A” al R.D. 17 agosto 1907, n. 643,
recante l’approvazione del regolamento di procedura di giudizi dinanzi la giunta
provinciale.
In ambedue tali previsioni l’uso della particella disgiuntiva “o” rendeva evidente che il
deposito nella casa comunale non era un atto ineludibile, poteva essere sostituito
dalla consegna a mani al sindaco o ad un suo delegato, ovviamente anche in luogo
diverso dalla casa comunale.
Ancora, l’art. 7 dell'”Annesso A” al R.D. 20 dicembre 1909, n. 830 (“che approva
l’annesso regolamento sulla pesca e sui pescatori”), dopo aver stabilito che ogni
sindacato di pescatori aveva sede nella casa comunale, aggiungeva “o nei locali di
una delle associazioni che lo compongono”, così dimostrando anche in questo caso
come la designazione della casa comunale non fosse assoluta.
In seguito, in circostanze ben più tragiche, il R.D. 31 ottobre 1942, n. 1612, art. 42
(recante “regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi sulla disciplina dei
cittadini in tempo di guerra”), nel prevedere la facoltà del ministro per le corporazioni
di chiamare al lavoro i cittadini per esigenze di guerra, stabilì che il “manifesto di
chiamata” dovesse essere affisso “all’esterno della casa comunale ed in altri
principali luoghi pubblici”.
Questo breve excursus dimostra come il legislatore, già molto tempo prima
dell’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura civile, aveva indicato nella casa
comunale il luogo deputato allo svolgimento delle più svariate attività: il deposito
degli atti non potuti notificare, la sede degli uffici di conciliazione, la sede dei consigli
di associazioni professionali, il luogo di affissione dei pubblici proclami.
Tuttavia da un lato la eterogeneità di tali previsioni, e dall’altro l’attribuzione alle
autorità amministrative della facoltà di designare luoghi diversi ed equipollenti
rispetto alla casa comunale, rendono palese che la scelta quest’ultima come luogo
deputato al compimento di determinati atti si giustificava non per una indimostrabile
“prevalenza” del municipio su altri luoghi, ma soltanto per il fatto che, in una società
ancora largamente preindustriale e scarsamente alfabetizzata (nel 1865 nel nostro
Paese era analfabeta il 72,96% della popolazione, ed ancora il 21% nel 1931), la
sede del Comune era un luogo che consentiva una individuazione inequivoca.
Era la facilità di individuazione la ratio legis sottesa dalle norme che imponevano il
compimento di determinati atti giuridici nella casa comunale.
Quella ratio è, da tempo, venuta meno.
La drastica riduzione dell’analfabetismo, la facilità delle comunicazioni e degli
spostamenti, le moltiplicate possibilità della p.a. di far pervenire le proprie
deliberazioni ai cittadini, rendono puramente teorica la possibilità che questi ultimi
siano tratti in errore nell’individuazione della “casa comunale”, o dei luoghi destinati
a sostituirla.
Ne consegue che, anche ad ammettere che l’art. 140 c.p.c. sia ambiguo – il che, per
quanto si dirà, non è -, la norma andrebbe comunque interpretata alla luce del
mutato contesto socioeconomico sopra tratteggiato.
Essa, pertanto, in applicazione del principio cessante ratione legis, cessat et ipsa
lex, va interpretata nel senso che l’espressione “casa del comune” presente nell’art.
140 c.p.c., così come l’espressione “casa comunale”, che compare nell’art. 143
c.p.c., vadano intese come sinonimi di “municipio od altro luogo a tal fine designato
dall’amministrazione comunale”.
1.7. Ad esiti analoghi conduce l’interpretazione sistematica.
Le espressioni “casa del comune” o “casa comunale” compaiono in numerose
norme, sostanziali e processuali.
In materia processuale, compaiono – tra gli altri – negli artt. 140, 143 e 150 c.p.c.;
nell’art. 155 c.p.p.; nel , . In tutte queste norme la casa comunale è indicata quale
luogo del deposito di atti o dell’affissione di avvisi.
In materia sostanziale, l’espressione “casa comunale” compare nell’art. 106 c.c. (che
la designa quale luogo di celebrazione del matrimonio; affine è la previsione del
D.P.R. 3 novembre 2000, art. 70 novies, che designa la “casa comunale” a sede
della celebrazione delle unioni civili); nel medesimo D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396,
artt. 55 (che impone la pubblicazione di matrimonio “presso la porta della casa
comunale”).
Tuttavia il citato D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 3 (recante “Regolamento per la
revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile”) accorda ai Comuni
la facoltà di “disporre, anche per singole funzioni, l’istituzione di uno o più separati
uffici dello stato civile”. Ed il Consiglio di Stato, richiesto dal Ministero dell’Interno
d’un parere sull’interpretazione di tale norma, ha chiarito che “casa comunale può
essere considerata qualsiasi struttura nella disponibilità giuridica del Comune,
vincolata allo svolgimento di funzioni istituzionali”(Cons. di Stato, sez. I, parere
22.1.2014 n. 196).
Vero è che la suddetta norma (D.P.R. n. 396 del 2000, art. 3) e il suddetto parere del
Consiglio di Stato avevano ad oggetto la “casa comunale” quale luogo di
celebrazione del matrimonio. Ma se la legge consente la delocalizzazione – rispetto
alla sede storica del municipio – della celebrazione del matrimonio civile, a maggior
ragione dovrà ritenersi consentita la istituzione di “case comunali” alternative per il
deposito degli atti notificati ai sensi dell’art. 140 c.p.c.: se così non fosse si
perverrebbe all’assurdo, incoerente col tradizionale canone ermeneutico dell’a
fortiori, per cui la legge richiederebbe oneri formali meno rigorosi per l’atto di
preminente importanza sociale, giuridica e costituzionale (il matrimonio), mentre
esigerebbe oneri formali ben maggiori, per il compimento di atti di minor rilievo (il
deposito d’un verbale di accertamento d’una contravvenzione stradale, non potuto
consegnare al destinatario della notifica).
1.8. Resta da aggiungere come non ostino alle conclusioni sopra raggiunte i due
precedenti di questa Corte invocati dalla ricorrente: e cioè Sez. 2, Sentenza n. 1321
del 03/02/1993, Rv. 480653 – 01, e Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 16817 del 03/10/2012,
Rv. 624022 – 01.
La prima di tali decisioni aveva ad oggetto un caso in cui l’ufficiale giudiziario, non
rinvenuto il destinatario dell’atto, depositò il piego, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nella
“casa comunale” di una frazione del Comune.
Questa Corte ritenne nulla quella notifica, ma non perchè all’amministrazione fosse
inibito designare luoghi equipollenti alla casa comunale; ma per la diversa
considerazione che le frazioni comunali non hanno una “casa comunale”, nè nel
caso di specie era stato dimostrato che il Comune avesse deputato un luogo
equipollente nel territorio della frazione.
Quanto alla decisione pronunciata ad Cass. 16817/12, cit., essa aveva ad oggetto
una fattispecie analoga a quella oggi in esame. Tuttavia in quel caso il Collegio
giudicante ritenne nulla la notifica non perchè il piego venne depositato nel luogo
designato dal Comune quale equivalente alla casa comunale, ma per la diversa
ragione che la designazione di quel luogo era avvenuta sulla base di un
provvedimento amministrativo adottato dopo l’esecuzione della notifica.
Non sarà superfluo aggiungere che:
-) le argomentazioni trascritte dal ricorrente a p. 6-7 del proprio ricorso, ed estratte
dalla motivazione di Cass. 16871/12, erano contenute nella proposta di decisione ex
art. 380 bis c.p.c., trascritta in sentenza, e non nella parte decisoria vera e propria
della sentenza;
-) quelle motivazioni, in ogni caso, erano state mutuate alla lettera dalla precedente
sentenza 1321/93, che aveva ad oggetto un caso del tutto diverso da quello oggi in
esame;
-) nessuna delle due decisioni si confronta col testo inequivoco del D.P.R. n. 396 del
2000, art. 3;
-) neppure è dedotto che la designazione del luogo diverso dalla casa comunale, nel
quale il deposito ha avuto luogo, sia avvenuta in modo irrituale o comunque con
modalità tali da sorprendere o limitare il diritto di difesa del destinatario della notifica
(ad esempio, perchè non menzionata chiaramente nell’avviso di avvenuto deposito
previsto dallo stesso art. 140 c.p.c.).
1.9. Per queste e per le altre ragioni sopra indicate, ai due precedenti invocati dal
ricorrente, anche ad ammettere che fossero pertinenti rispetto al caso di specie,
ritiene questo Collegio di non potere dare continuità, in applicazione del seguente
principio di diritto: “in materia di notificazione di atti e quindi anche di verbali
di accertamento di violazioni del codice della strada, la “casa del comune” in
cui l’ufficiale notificante deve depositare la copia dell’atto da notificare si
identifica, in alternativa alla sede principale del Comune, anche in qualsiasi
struttura nella disponibilità giuridica di questo, vincolata allo svolgimento di
funzioni istituzionali con provvedimento adottato prima della notificazione e
chiaramente menzionata nell’avviso di avvenuto deposito”.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la
violazione da parte del Tribunale della L. n. 689 del 1981, art. 14; del D.Lgs. n. 285
del 1992, art. 201, comma 3; della L. n. 890 del 1982, artt. 3, 7 ed 8; della L. n. 296
del 2006, art. 1, commi 158 e 159.
Nell’illustrazione della censura il ricorrente deduce che erroneamente il Tribunale ha
ritenuto valida la notifica dei verbali di contestazione (o accertamento)e della
violazione amministrativa, effettuata dagli incaricati di una società privata. Espone
che l’attività notificatoria nel caso di specie venne eseguita da incaricati della società
ATI TNT Poste; che tale attività non può essere affidata dall’ente accertatore della
violazione ad agenzie o società private; che tale facoltà venne concessa alle
amministrazioni comunali soltanto dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, emanata nove
mesi dopo che il Comune di Firenze, con provvedimento del sindaco, aveva già
attribuito il potere notificatorio a soggetti privati; che la nullità della notifica dei verbali
rendeva nulla la susseguente cartella di pagamento.
2.2. Il motivo è infondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata debba
essere, in parte, emendata.
All’epoca in cui i verbali di accertamento della violazione vennero notificati a P.F., la
materia era disciplinata dall’art. 201 C.d.S., comma 3, rimasto da allora invariato.
Tale norma elenca quattro diversi soggetti cui può essere affidata la notificazione del
verbale di contestazione (o accertamento)e dell’infrazione al codice della strada,
ovvero:
a) gli organi incaricati dei servizi di polizia stradale (Polizia, Carabinieri, Guardia di
finanza, Polizia penitenziaria, Polizia Municipale);
b) i messi comunali;
c) un funzionario dell’amministrazione che ha accertato la violazione;
d) il servizio postale.
Quale che sia la modalità prescelta, la legge prevede poi una norma di chiusura, la
quale stabilisce che “comunque” (e dunque anche nel caso di notificazioni eseguite
senza il rispetto delle suddette previsioni) le notificazioni si intendono validamente
eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede dell’obbligato, risultante
dalla carta di circolazione, o dall’archivio nazionale dei veicoli, o dal P.R.A. o dalla
patente di guida del conducente autore dell’infrazione.
La legge, dunque, consente che il verbale di contestazione (o accertamento) sia
notificato da “messi comunali”.
La nozione di “messo comunale” era, in passato, prevista in linea generale dal R.D.
3 marzo 1934, n. 383, art. 273 (testo unico della legge comunale e provinciale). Tale
norma venne in seguito abrogata dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 64 (e
l’abrogazione venne, inutilmente, ribadita dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art.
274).
Nondimeno, sono ancora molte le norme tuttora in vigore che continuano a fare
riferimento alla figura del “messo comunale”: ad es. l’art. 201 C.d.S., già citato, o la
L. 3 agosto 1999, n. 265, art. 10, che consente alle pubbliche amministrazionì di
ricorrere ai messi comunali per l’esecuzione di notifiche.
Poichè dunque la legge continua a prevedere la possibilità che le notificazioni siano
eseguite da “messi comunali”, ma non ne dà una definizione generale, questa Corte
ne ha tratto la conclusione che la qualifica di “messo comunale” prescinde dal
rapporto giuridico che lega il messo al Comune. Potranno dunque aversi messi che
siano dipendenti della p.a.; messi che siano funzionari non dipendenti; messi che
siano mandatari dell’amministrazione; messi che siano appaltatori di servizi per
l’amministrazione.
Come già ritenuto da questa Corte, infatti, qualsiasi attività umana può formare
oggetto sia di un rapporto di lavoro autonomo, sia di un rapporto di lavoro
subordinato (ex multis, Sez. L, Sentenza n. 10262 del 15/07/2002, Rv. 555755 01, in
motivazione), sicchè in mancanza di norme di legge che impongano l’adozione
dell’uno piuttosto che dell’altro tipo di rapporto, l’amministrazione comunale resta
libera di scegliere la formula contrattuale più consona al pubblico interesse.
2.3. E’ consentito quindi all’amministrazione comunale appaltare a soggetti privati
l’esecuzione dei compiti del messo comunale, ivi compresa la notificazione dei
verbali di accertamento delle infrazioni al codice della strada.
Nel caso di specie, è la stessa ricorrente ad allegare che il Comune di Firenze ha
appaltato ad un soggetto privato il servizio di notificazione dei verbali di
accertamento delle sanzioni amministrative: e, per quanto detto, ciò era consentito al
Comune dalla sua autonomia decisionale, e le notificazioni eseguite dai soggetti così
nominati sono conformi al dettato dell’art. 201 C.d.S..
2.4. Non è, invece, corretto quanto ritenuto dal Tribunale, e cioè che la notificazione
del verbale di accertamento della violazione al codice della strada potesse essere
effettuata da privati ai sensi della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi 158 e
159.
Tali previsioni infatti, non hanno attribuito alcun ulteriore potere ai Comuni in tema di
messi comunali (attribuzione della quale non v’era bisogno, alla luce ella previsione
di cui all’art. 201 C.d.S.), ma hanno istituito la diversa figura del “messo notificatore”,
competente ad eseguire le notificazioni di soli tre gruppi di atti:
-) gli atti di accertamento dei tributi locali;
-) gli atti delle procedure esecutive di cui al testo unico sulla riscossione delle entrate
patrimoniali dello Stato, di cui al R.D. 14 aprile 1910, n. 639;
-) gli atti di invito al pagamento delle entrate extratributarie dei comuni.
Tuttavia l’errore in cui è incorso il Tribunale, per quanto detto, è stato ininfluente, in
quanto il dispositivo della sentenza impugnata fu comunque conforme a diritto, per le
ragioni già esposte.
2.5. Resta solo da aggiungere che i precedenti giurisprudenziali invocati dalla parte
ricorrente non sono pertinenti rispetto al caso di specie.
Quei precedenti infatti (richiamati a p. 10 del ricorso) riguardavano l’ipotesi in cui una
pubblica amministrazione aveva affidato a privati l’esecuzione di notificazioni o
comunicazioni che, per legge, andavano eseguite a mezzo del servizio postale. La
nullità, in quel caso, derivava dunque non dalla circostanza che la notifica venne
eseguita da un privato, ma dal fatto che venne eseguita da un privato che si sostituì
al servizio postale universale.
Ben diverso è il caso di specie, nel quale nessuna norma riserva al servizio postale
la notifica dei verbali di accertamento, ma anzi l’art. 201 C.d.S. espressamente
parifica la notifica effettuata dal messo comunale a quella effettuata per il tramite del
servizio postale.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata
sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’
denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 140 c.p.c. e art. 201 C.d.S..
Deduce, al riguardo, che:
-) il primo dei due verbali di accertamento dell’infrazione era stato irritualmente
notificato, perchè l’avviso di avvenuto deposito del piego presso la casa comunale
era stato spedito da soggetto diverso dal messo comunale, e comunque il relativo
avviso di ricevimento non recava alcun timbro postale;
-) quanto al secondo verbale, la relata di notifica di esso era stata redatta da
persona, qualificatasi “messo comunale”, diversa da quella che aveva poi spedito a
mezzo raccomandata l’avviso di avvenuto deposito del piego nella casa comunale, e
cioè la ATI TNT Poste s.p.a..
3.2. Il motivo è infondato.
Quanto alla prima censura, essa è infondata poichè la spedizione dell’avviso di
ricevimento dell’avvenuto deposito del piego nella casa comunale avvenne a cura
delle Poste Italiane; solo la consegna dell’atto alle Poste avvenne a cura della ATI
TNT Poste, e ciò le era certamente consentito come già ritenuto da questa Corte (ex
multis, Sez. 2 -, Sentenza n. 462 del 11/01/2017, Rv. 642211 – 01; Sez. 2, Sentenza
n. 7177 del 10/05/2012, Rv. 622484 – 01).
Quanto alla seconda censura, essa è infondata poichè è ovvio che la persona fisica
incaricata dalla ATI TNT Poste s.p.a. di eseguire la notifica, agendo in nome e per
conto della società mandante, si identifica organicamente con quest’ultima, e non vi
fu dunque alcuna dissociazione tra chi eseguì la notifica, e chi spedì l’avviso di
avvenuto deposito del piego nella casa comunale.
4. Il ricorso incidentale.
4.1. Il ricorso incidentale, da qualificare come sostanzialmente condizionato
all’accoglimento del ricorso principale, resta assorbito dal rigetto di quest’ultimo.
5. Le spese.
5.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del
ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.
5.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la
presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai
sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo
introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.
la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale;
(-) condanna P.F. alla rifusione in favore del Comune di Firenze delle spese del
presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 800, di cui 200
per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n.
55, ex art. 2, comma 2;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,
art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di P.F. di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte
di cassazione, il 23 maggio 2019.