Corte D`Appello Civile Roma – Sentenza n. 5526 del 16 settembre 2016

SENTENZA

nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 8090 R.G.A.C. dell’anno 2015 trattenuta in decisione all’udienza del 16/9/2016 a seguito di discussione orale ex art. 281 sexies e 352 ultimo comma cpc e vertente

TRA

A.CO. SRL in persona del legale rappresentante pro tempore

Rappresentala e difesa dagli Avv.ti Le.Ap.Be. e An.Zu. ed elettivamente domiciliata in Roma, presso il loro studio giusta procura in calce all’atto di appello

APPELLANTE

E

LU.GI.

rappresentato e difeso dagli Avv.ti St.Ba. e Be.Ci. ed elettivamente domiciliato in Roma presso il loro studio giusta procura in calce al ricorso monitorio

APPELLATO

Oggetto: Appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 18487 del 17/9/205 in materia di pagamento somma

Conclusioni:

Appellante: “in accoglimento del presente appello ed in riforma dell’impugnata sentenza: in via principale, in accoglimento del presente gravame, riformare integralmente l’impugnata sentenza e, per l’effetto, dichiarare l’ammissibilità dell’opposizione proposta e revocare il decreto ingiuntivo originariamente opposto e comunque dichiarare lo stesso nullo e/o privo di giuridica efficacia nei confronti la società opponente.

In ogni caso voglia altresì l’Ecc.ma Corte di Appello adita condannare appellato alla restituzione delle somme che, qualora fossero incassate, risulterebbero indebitamente percepite.

In via istruttoria, per i motivi sopra esposti, si chiede l’ammissione ex art. 356 c.p.c. della produzione dei seguenti documenti:…

Sempre in via istruttoria, per i motivi su esposti, attesa la sussistenza dei presupposti di legge, si richiede che il Collegio voglia sospendere l’esecutorietà dell’impugnata sentenza di primo grado ex artt. 283 e 351 c.p.c. Con vittoria di spese, competenze ed onorari di entrambi i gradi di giudizio”. Appellato: “Voglia codesta Ecc ma Corte di Appello dichiarare inammissibile e comunque rigettare, perché destituito di fondamento giuridico fattuale, l’appello proposto dalla società A.Co. Srl avverso la sentenza 17/9/2015 n. 18487 del Tribunale civile di Roma, Sez. X, in persona del Giudice Dott.ssa Antonella Izzo nella causa R.G. n. 18665/15. In ogni caso condannare parte appellante alle spese e competenze difensive del doppio grado di giudizio”.

FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE

A.Co. Srl ha proposto appello avverso la sentenza indicala in epigrafe con cui il Tribunale di Roma ha dichiarato inammissibile la sua opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c. al decreto ingiuntivo n. 77525/14, emesso dal Tribunale di Roma in data 12-17/12/2014, con il quale le era stato intimato il pagamento della somma di Euro 300.000,00, oltre interessi legali, a favore di Lu.Gi., in forza di accordi fra le parti inerenti la cessione dì un suolo edificatorio nel Comune di Campagnano località Monte Cuculo. Il Giudice di primo grado ha escluso l’esistenza dei presupposti dell’art. 650 c.p.c. ed in particolare ha ritenuto infondato l’assunto della società intimata secondo cui la stessa non aveva potuto prendere conoscenza del decreto ingiuntivo per causa ad essa non imputabile, in quanto l’opponente aveva dedotto che, pur essendo formalmente dotata della p.e.c. non l’aveva mai utilizzata ed aveva provveduto a far svolgere le opportune verifiche dandone il relativo incarico alla Te. SNC. A seguito di tali accertamenti, eseguiti in data 3/3/2015, l’opponente aveva appreso che la p.e.c. intestata alla società non solo non era stata mai aperta, ma nemmeno mai configurata e che per tale motivo la stessa era inutilizzabile per inviare e ricevere messaggi di posta elettronica certificata.

Il Tribunale ha in proposito statuito che “l’art. 149 bis c.p.c., relativo alla notificazione a mezzo di posta elettronica, stabilisce (terzo comma) che la notifica s’intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario.

Pertanto la mancata visualizzazione dell’atto notificato da parte del destinatario, dovuta alla mancata configurazione sul computer in uso della casella di posta elettronica certificata, non inficia la validità della notifica, né assume rilevanza come ipotesi di caso fortuito o forza maggiore, dato che è interamente dovuta alla condotta della stessa titolare dell’indirizzo p.e.c.”. Con il primo motivo di appello A.Co. S.r.l. ha lamentato l’erroneità e contraddittorietà della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato inammissibile l’opposizione, ritenendo implicitamente inapplicabile l’art. 650 c.p.c. alla fattispecie e ritenendo di escludere la sussistenza di un’ipotesi di caso fortuito o forza maggiore senza considerare le circostanze di fatto rilevanti ai finì della decisione.

In realtà l’evento verificatosi, come sopra descritto doveva essere valutato alla stregua di un impedimento oggettivo non voluto e non previsto, poiché 1) la pec costituisce ancor oggi, sia di per sé che per la sua utilizzazione, uno strumento fortemente tecnologico ed innovativo; 2) la società appellante si era regolarmente adeguata nei termini al dettato normativo, dotandosi della casella di posta elettronica certificata prevista come obbligatoria per le società dalla legge ma, in assenza di approfondite cognizioni tecniche e stante anche l’ulteriore circostanza assai rilevante costituita dalla mancanza di personale amministrativo dipendente, non aveva mai provveduto a configurare la suddetta casella di pec; 3) la legge istitutiva della pec era peraltro entrata in vigore da breve tempo.

Muovendo da tali dati, nonostante l’avvenuto perfezionamento della notifica del decreto ingiuntivo ex art. 149 bis c.p.c., la fattispecie concreta posta fondamento dell’opposizione, avrebbe consentito senza dubbio di superare la diversa automatica presunzione di conoscenza in capo al destinatario della notifica effettuata in via telematica.

L’appellante ha citato giurisprudenza del giudice amministrativo in materia di notifica via pec secondo cui il malfunzionamento dell’impianto ricevente comporta indiscutibilmente il superamento di una tale presunzione. Quindi la mancata funzionalità della casella di posta elettronica certificata, come puntualmente provata dalla parte opponente, costituendo un’ipotesi di malfunzionamento tecnico dovuto alla mancanza di cognizione tecnica, accompagnata da tutti gli elementi fattuali sopra individuati non poteva integrare gli estremi del comportamento colposo, unico idoneo ad escludere l’operatività nella vicenda, del caso fortuito, con conseguente ammissibilità dell’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.

Con il secondo motivo di appello l’appellante rilevava l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui non aveva valutato tutte le circostanze di fatto e le argomentazioni in diritto poste a fondamento dell’opposizione, avendo il giudice di primo grado pronunciato l’inammissibilità dell’opposizione. Pertanto l’appellante riproponeva tutti i motivi di merito dell’opposizione al decreto ingiuntivo.

Si è costituita l’appellata che ha contesto i motivi di appello.

Con ordinanza dell’8/4/2016 la Corte ha respinto l’istanza di inibitoria. La causa è stata trattenuta in decisione a seguito di discussione orale ex art. 281 sexies e 352 ultimo comma epe all’udienza del 16/9/2016.

L’appello è infondato e va respinto.

L’appellante infatti non ha contestato la regolarità della notifica, ma ha sostenuto che la mancata conoscenza del decreto ingiuntivo dovuta all’omessa configurazione della posta elettronica certificata inutilizzabile per inviare e ricevere messaggi di posta elettronica certificata sia riconducibile alle ipotesi del caso fortuito o forza maggiore previste dall’art. 650 c.p.c. Tuttavia le circostanze indicate a sostegno della tesi, legate alla natura fortemente tecnologica ed innovativa della pec, alla mancanza di personale amministrativo dipendente che non aveva mai provveduto a configurare la casella di pec ed alla recente entrata in vigore della legge istitutiva della pec, non sono certamente idonee ad integrare il caso fortuito o la forza maggiore, poiché l’omessa configurazione della pec, causa del mancato ricevimento dell’atto notificato, pur ritualmente consegnato al destinatario in via telematica (circostanza pacifica), è ricollegabile, proprio alla luce di detti elementi, ad un colpevole difetto di organizzazione amministrativa, non giustificabile con riferimento ad una società di capitali, quale l’appellante, che comunque aveva tempestivamente provveduto a dotarsi di una propria casella di posta elettronica certificata e a dame comunicazione al Registro delle Imprese ai sensi dell’art. 16 l. n. 2/09.

In proposito il difensore dell’opposta ha dedotto, sin dal primo grado, di avere appreso l’indirizzo utilizzato per la notifica dall’apposito registro INI-PEC (circostanza non contestata e vedi visura camerale di A.Co. Srl doc. 16 di parte opposta in primo grado).

Infatti la forza maggiore ed il caso fortuito di cui all’art. 650 cpc si identificano rispettivamente in una forza esterna ostativa in modo assoluto ed in un fatto di carattere oggettivo avulso dall’umana volontà e causativo dell’evento per forza propria (Cfr. Cass. civ. n. 25737/08, n. 3769/01). In un caso assimilabile a quello in questione la Corte di Cassazione ha statuito che, una volta ottenuta dall’Ufficio giudiziario l’abilitazione all’utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, l’Avvocato, che abbia effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di pec al Ministero della Giustizia per il tramite del Consiglio dell’Ordine di appartenenza, diventa responsabile della gestione della propria utenza, nel senso che ha l’onere di procedere alla periodica verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli dalla cancelleria a tale indirizzo, indicato negli atti processuali, non potendo far valere la circostanza della mancata apertura della posta per ottenere la concessione di nuovi termini per compiere attività processuali (Cfr. Cass. civ. Sez. Lav. n. 15070/14).

Il secondo motivo di appello, attinente al merito della controversia, resta quindi assorbito e l’appello va dunque respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Le spese del giudizio seguono soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei valori compresi fra il minimo e la media dello scaglione fino a Euro 520.000,00 individuato in base alla domanda, di cui alle voci studio della controversia, fase introduttiva e trattazione del D.M. n. 55/14, considerato il corrispondente grado di complessità della fattispecie trattata, l’assenza di istruttoria e la mancata partecipazione dell’appellato alla discussione orale ex art. 281 sexies cpc..

Trova nella specie in esame applicazione anche l’art. 96, terzo comma, c.p.c., che, secondo l’opinione di questa Corte, richiede la sussistenza del requisito soggettivo di cui ai primo comma della stessa disposizione: il terzo comma dell’articolo 96 c.p.c. è difatti pur sempre inserito in una disposizione intitolata alla responsabilità aggravata che, nella fattispecie considerata dal primo comma, vede nella malafede o colpa grave il connotato distintivo e la pietra dì paragone; d’altro canto non sarebbe razionale ammettere una responsabilità processuale in caso di colpa lieve, giacché il diritto di agire e resistere in giudizio è diritto “che deve essere esercitato liberamente e che perciò non tollera remore eccessive; e remora eccessiva all’esercizio di tale diritto sarebbe, per la parte, la prospettiva di andare incontro alla comune responsabilità per fatti illeciti sanzionata dalla norma dell’art. 2043 c.c. e quindi anche per colpa lieve” (Cass., S.U. n. 874/1984).

Il requisito in discussione è in questo caso evidentemente sussistente, sotto forma se non altro di colpa grave, avendo l’appellata resistito nel giudizio di appello, sostenendo di non avere conosciuto tempestivamente il decreto ingiuntivo, senza contestare la regolarità della notifica ed ammettendo tuttavia di averla ignorata per motivi palesemente riconducibili ad una propria condotta improntata ad imperizia e negligenza e quindi colpevole, come già sottolineato dal Giudice di primo grado.

Nella concreta determinazione del quantum occorre, allora, considerare, sul piano del danno patrimoniale, che la resistenza nel giudizio di impugnazione, benché temeraria, determina sempre una “condizione di incertezza dei rapporti giuridici coinvolti dal processo”, la quale è normalmente foriera di pregiudizi economici.

Sul piano non patrimoniale, poi, la pendenza della lite reca certamente un pregiudizio correlato al fatto stesso della sua introduzione, giacché, se è vero che reca normalmente pregiudizio la durata irragionevole di un processo legittimamente instaurato (come dimostra la c,d. “legge Pinto”), non può non arrecare ancor maggiore pregiudizio un processo temerariamente continuato, che invece neppure avrebbe dovuto avere inizio.

E nella liquidazione (che a parere di questa Corte può giovarsi, sia pure orientativamente, del parametro indicato all’abrogato articolo 385 c.p.c., il quale faceva riferimento al massimo al doppio delle spese di lite nei limiti tariffari) non può non tenersi conto della misura della posta in gioco, in questo caso da parametrarsi all’entità della domanda proposta inizialmente dall’appellante: cosicché la Corte d’appello stima equo determinare la somma da corrispondersi ai sensi dell’art, 96, terzo comma, c.p.c., nella misura di Euro 10.000,00, Inoltre, l’appello è stato notificato in data 15/12/2015, dunque successivamente all’entrata in vigore (31.01.2013) della legge 24 dicembre 2012, n. 228, il cui articolo I, comma 17, ha integrato il decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, aggiungendovi il comma L quater, che dispone:

“Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma dell’art. 1 – bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso.”

Dovendo l’appello essere respinto integralmente poiché infondato, deve provvedersi in conformità (cfr. Cass., Sez. Un. n. 773/2014).

P.Q.M.

La Corte di Appello dì Roma, definitivamente pronunciando, così provvede:

1) respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;

2) condanna A.Co. Srl alla rifusione, in favore di Lu.Gi., delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 10.000,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori di legge;

3) condanna A.Co. Srl al pagamento, in favore di Luppino Giuseppe, della somma di Euro 10.000,00 ex art 96 co 3 cpc;

4) dichiara sussistenti i presupposti per il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’appello, a norma dell’articolo art. 1, comma 17, della legge n. 228/2012.