Agenzia delle Entrate – Circolare n. 37/E del 21 giugno 2010

Articolo 3 del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73 – Deflazione del contenzioso e razionalizzazione della riscossione
 

1. Premessa

Al fine di potenziare l’attività di contrasto all’evasione mediante interventi di deflazione e semplificazione del contenzioso tributario e di accelerazione della riscossione, con l’art. 3, commi 1 e 2, del D.L. 25 marzo 2010, n. 40 (di seguito: decreto), convertito, con modificazioni, dalla L. 22 maggio 2010, n. 73 (di seguito: legge di conversione), sono state apportate alcune rilevanti modifiche al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546. Le modifiche riguardano, in particolare:

– la disciplina della notificazione delle sentenze delle Commissioni tributarie, recata dall’art. 38 del D.Lgs. n. 546 del 1992 [art. 3, comma 1, lettera a), del decreto];
– l’istituto della conciliazione giudiziale, previsto dall’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 1992 [art. 3, comma 1, lettera b), del decreto] e, coerentemente, la disciplina dell’accertamento con adesione, di cui all’art. 8, comma 2, del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 (art. 3, comma 1, lettera b), del decreto];
– l’autorizzazione alla proposizione dell’appello principale da parte delle strutture territoriali, di cui all’art. 52, comma 2, del medesimo D.Lgs. n. 546 del 1992 [art. 3, comma 1, lettera c), del decreto].
– la riscossione provvisoria delle somme dovute in base a decisioni della Commissione tributaria centrale ai sensi dell’art. 68 del D.Lgs. n. 546 del 1992.

Infine, con disposizione inserita in sede di conversione nel comma 2-bis del citato art. 3 del decreto, è stata prevista una speciale definizione delle controversie instaurate da oltre dieci anni e pendenti presso la Commissione tributaria centrale e presso la Corte di Cassazione.
Con la presente circolare si forniscono chiarimenti in ordine alle modifiche introdotte dal decreto.

2. Le modifiche alla disciplina delle notificazioni

L’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto innova la disciplina in tema di notificazione della sentenza, contenuta nell’art. 38, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992.
In particolare, la nuova disposizione introduce la possibilità di notificare la sentenza, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnativa, avvalendosi delle medesime modalità previste per gli altri atti del processo tributario dall’art. 16 del D.Lgs. n. 546 del 1992.
Si evidenzia che l’estensione alla notificazione della sentenza delle modalità previste per gli altri atti del processo tributario risponde all’esigenza di facilitare l’accesso al grado successivo del giudizio o la definitività del provvedimento giurisdizionale, nella prospettiva dell’accelerazione del procedimento di esecuzione della sentenza.
Le nuove modalità di notificazione delle sentenze delle Commissioni tributarie provinciali e regionali si applicano a partire dal 26 marzo 2010, data di entrata in vigore del decreto, anche in relazione a sentenze già depositate alla predetta data.

2.1. Le nuove modalità di notificazione della sentenza

La precedente formulazione dell’articolo 38, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992 stabiliva che la notificazione della sentenza andava effettuata ai sensi degli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, vale a dire esclusivamente per il tramite dell’ufficiale giudiziario. Questa, dunque, era l’unica forma di notificazione ammessa per la sentenza, a differenza di quanto previsto dall’art. 16 del D.Lgs. n. 546 del 1992 in tema di “Comunicazioni e notificazioni” degli altri atti del processo tributario.
La nuova disciplina recata dal decreto ha modificato il comma 2 dell’art. 38 in esame, sostituendo, innanzi tutto, il richiamo agli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile con quello all’art. 16 del D.Lgs. n. 546 del 1992.
In base all’art. 16 del D.Lgs. n. 546 del 1992, le modalità di notificazione delle sentenze ora ammesse sono le seguenti:

– “secondo le norme degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile …” e, quindi, avvalendosi come per il passato dell’ufficiale giudiziario (art. 16, comma 2);
– “direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento” (art. 16, comma 3);
– per il contribuente, anche “all’ufficio del Ministero delle finanze ed all’ente locale mediante consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia” (art. 16, comma 3);
– per l’ufficio, anche “a mezzo del messo comunale o di messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria, con l’osservanza delle disposizioni di cui al comma 2” (art. 16, comma 4).

In ordine alle suddette modalità di notificazione – ora applicabili anche alle sentenze – sono stati forniti chiarimenti con la circolare n. 98/E del 23 aprile 1996, al cui contenuto si rinvia. In definitiva, per effetto della nuova disciplina, la notificazione della sentenza può essere effettuata:

– dal contribuente e dall’Amministrazione finanziaria, avvalendosi dell’ufficiale giudiziario o direttamente a mezzo del servizio postale, mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3);
– dal contribuente, anche mediante consegna diretta dell’atto all’ufficio;
– dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite messi comunali o dalla stessa autorizzati.

2.2. Gli adempimenti presso la segreteria della Commissione tributaria

L’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto reca un’ulteriore modifica al comma 2 dell’art. 38 del D.Lgs. n. 546 del 1992, laddove – nella sua formulazione previgente – stabiliva che “Le parti hanno l’onere di provvedere direttamente alla notificazione della sentenza … depositando, nei successivi trenta giorni, l’originale o copia autentica dell’originale notificato, nella segreteria, che ne rilascia ricevuta e l’inserisce nel fascicolo d’ufficio”.
A seguito dell’introduzione della possibilità di notificare la sentenza anche con consegna diretta e a mezzo del servizio postale, si è reso necessario inserire nella norma l’ulteriore previsione secondo la quale il deposito, in funzione della modalità di notificazione prescelta, ha ad oggetto – oltre all'”originale o copia autentica dell’originale notificato” – “copia autentica della sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale unitamente all’avviso di ricevimento”.
Si osserva che, in relazione alle diverse modalità di notifica della sentenza, la decorrenza del termine breve di impugnazione è comprovata:

– dalla relata di notifica apposta dall’ufficiale giudiziario o dal messo comunale o speciale sull’originale o copia autentica della sentenza notificata;
– dalla ricevuta rilasciata dall’Ufficio al quale è consegnata la sentenza;
– dall’avviso di ricevimento attestante la data in cui il destinatario ha ricevuto, tramite servizio postale, la sentenza in plico senza busta. In proposito, si richiama quanto disposto dall’art. 16, comma 5, del D.Lgs. n. 546 del 1992, secondo cui “Qualunque … notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data della spedizione; i termini che hanno inizio dalla notificazione … decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”. Ne consegue che il predetto avviso di ricevimento, quindi, costituisce la prova in ordine alla decorrenza del termine breve di impugnazione.

3. Le modifiche alla conciliazione giudiziale e all’accertamento con adesione

L’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto interviene sulla disciplina delle garanzie che il debitore è tenuto a prestare ai fini del pagamento rateale delle somme dovute nell’ambito della conciliazione giudiziale e dell’accertamento con adesione.
Nella specie, sono stati modificati il comma 3 dell’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 1992 – concernente la conciliazione giudiziale – ed il comma 2 dell’art. 8 del D.Lgs. n. 218 del 1997 – concernente l’accertamento con adesione – al fine di escludere la prestazione di garanzia nel caso in cui l’importo complessivo delle rate successive alla prima non sia superiore a 50.000 euro.
L’intervento normativo ha lo scopo di non imporre oneri gravosi al contribuente, quando l’importo rateizzato sia di entità non particolarmente rilevante.
Al riguardo si osserva che la modifica in esame trova applicazione anche nell’ambito dell’istituto della cosiddetta acquiescenza all’avviso di accertamento o di liquidazione, di cui all’art. 15, comma 2, del D.Lgs. n. 218 del 1997, che espressamente richiama il comma 2 dell’art. 8 del medesimo decreto.

3.1. La conciliazione giudiziale

Il secondo periodo del comma 3 dell’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 1992, nella versione previgente alle modifiche in commento, prevedeva che il pagamento delle somme dovute per la conciliazione giudiziale dovesse avvenire in unica soluzione ovvero, previa prestazione di idonea garanzia, in forma rateale, in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo, estese fino ad un massimo di dodici rate trimestrali se l’importo dovuto è superiore a 51.645,69 euro.
Per effetto dell’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto, l’art. 48, comma 3, secondo periodo, del D.Lgs. n. 546 del 1992 attualmente dispone il versamento delle somme dovute in forma rateale “in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo, ovvero in un massimo di dodici rate trimestrali se le somme dovute superano i cento milioni di lire, previa prestazione, se l’importo delle rate successive alla prima è superiore a 50.000 euro, di idonea garanzia …”.
Ne consegue che, in caso di rateizzazione dell’importo dovuto per la conciliazione giudiziale, qualora la somma delle rate successive alla prima sia di valore non superiore a 50.000 euro, non è più richiesta al contribuente la prestazione di idonea garanzia fideiussoria.
Ai sensi dell’art. 6 del decreto, la modifica in esame entra in vigore il giorno della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale, vale a dire il 26 marzo 2010.
Trattandosi di modifica di un istituto processuale, si ritiene che l’esclusione dell’obbligo di prestazione della garanzia – nel caso in cui l’importo complessivo delle rate successive alla prima non superi 50.000 euro – trovi immediata applicazione per quanto riguarda le proposte di conciliazione relative a controversie pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, con i limiti di seguito indicati.
Ai sensi dell’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 1992, la conciliazione giudiziale può essere conclusa solo davanti alla Commissione provinciale, sia in udienza che fuori udienza e comunque non oltre la prima udienza di trattazione (cfr. circolare n. 98/E del 23 aprile 1996).
Ne consegue che la modifica in esame non può trovare applicazione in caso di controversia per la quale si sia già svolta la prima udienza di trattazione della causa innanzi alla Commissione tributaria provinciale.
Si osserva inoltre che, ai sensi del comma 4 del predetto art. 48, se una delle parti ha proposto la conciliazione e questa non è avvenuta durante la prima udienza, la Commissione tributaria provinciale può concedere un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito in segreteria da parte dell’Ufficio finanziario di una proposta di conciliazione alla quale il ricorrente abbia preventivamente aderito.
Pertanto, si ritiene che la nuova disciplina in tema di garanzie per il versamento rateale trovi applicazione anche nelle ipotesi in cui la prima udienza di trattazione sia stata rinviata ai sensi del predetto comma 4 dell’art. 48.
Infine, ai sensi del comma 3 dell’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 1992, “La conciliazione si perfeziona con il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, dell’intero importo dovuto ovvero della prima rata e con la prestazione della predetta garanzia sull’importo delle rate successive, comprensivo degli interessi al saggio legale calcolati con riferimento alla stessa data, e per il periodo di rateazione di detto importo aumentato di un anno”.
Di conseguenza, la modifica introdotta dall’art. 3, comma 1, lettera b), prima parte, del decreto non trova applicazione in riferimento ai procedimenti per i quali, alla data del 26 marzo 2010, sia intervenuto il perfezionamento della conciliazione giudiziale.

3.2. L’accertamento con adesione

Analogamente a quanto previsto per l’istituto della conciliazione giudiziale, l’art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 218 del 1997, che disciplina l’accertamento con adesione, a seguito delle modifiche introdotte dal decreto in commento dispone ora che “Sull’importo delle rate successive sono dovuti gli interessi al saggio legale, calcolati dalla data di perfezionamento dell’atto di adesione, e per il versamento di tali somme, se superiori a 50.000 euro, il contribuente è tenuto a prestare idonea garanzia mediante polizza fideiussoria o fideiussione bancaria …”.
Ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. n. 218 del 1997, “La definizione si perfeziona con il versamento di cui all’articolo 8, comma 1, ovvero con il versamento della prima rata e con la prestazione della garanzia, previsti dall’articolo 8, comma 2”.
Come chiarito al punto 2.6, lettera b), della circolare n. 235/E dell’8 agosto 1997, “Ai fini del perfezionamento dell’adesione non è sufficiente la sottoscrizione dell’atto scritto tra le parti interessate; infatti, come espressamente previsto dall’art. 9, la definizione si perfeziona con il versamento, entro venti giorni dalla redazione dell’atto, delle intere somme dovute, ovvero, in caso di pagamento rateale, con il versamento della prima rata e con la prestazione della garanzia”.
Ne consegue che la modifica introdotta dall’art. 3, comma 1, lettera b), seconda parte, del decreto non trova applicazione ai procedimenti per i quali, alla data del 26 marzo 2010, sia intervenuto il perfezionamento dell’adesione.

4. L’autorizzazione all’appello

L’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto ha abrogato il comma 2 dell’art. 52 del D.Lgs. n. 546 del 1992, il quale stabiliva che “Gli Uffici periferici del Dipartimento delle entrate devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell’appello principale dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione regionale delle entrate”.
Pertanto, la proposizione dell’appello da parte degli uffici dell’Agenzia delle Entrate non necessita più della preventiva autorizzazione della Direzione regionale competente.
In particolare, per i ricorsi in appello da notificare a decorrere dal 26 marzo 2010 – ancorché a tale data già redatti – gli uffici non sono più tenuti a richiedere la suddetta autorizzazione ed a depositare la stessa nella segreteria della Commissione tributaria regionale.
Si osserva, infatti, che per sua natura l’appello viene giuridicamente ad esistenza soltanto al momento della sua notifica, senza che assuma rilevanza il momento in cui viene predisposto.
Come evidenziato nella relazione illustrativa al decreto, la modifica in esame si è resa necessaria al fine di adeguare la disciplina in materia di proposizione dell’appello al consolidato orientamento della Corte di Cassazione che aveva, di fatto, già escluso l’operatività dell’art. 52, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, a seguito dell’istituzione delle Agenzie fiscali.
Più precisamente, con sentenza 14 gennaio 2005, n. 604, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che “La disposizione dell’art. 52, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 … deve essere ritenuta non più suscettibile di applicazione nell’intervenuta operatività della normativa, di cui al D.Lgs. 30 agosto 1999, n. 300, che ha istituito le Agenzie fiscali, attribuendo ad esse la gestione della generalità delle funzioni in precedenza esercitate dai dipartimenti e dagli uffici del Ministero delle finanze, e trasferendo alle medesime i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze, da esercitarsi secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna Agenzia” (in senso conforme, Cass. 22 settembre 2006, n. 20516; Cass. 28 giugno 2007, n. 14912; Cass. 25 maggio 2009, n. 12042).

Tale principio è stato ulteriormente ribadito dalla Suprema Corte con sentenza 2 dicembre 2009, n. 25382, laddove si afferma che “la … disposizione, secondo la quale gli uffici del Dipartimento delle Entrate del Ministero delle finanze … devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell’appello principale … dal responsabile del servizio del contenzioso della competente Direzione generale (rectius: regionale, n.d.r.) delle Entrate … non è più suscettibile di applicazione una volta divenuta operativa – in forza del D.M. 28 dicembre 2000 – la disciplina recata dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57 che ha istituito le agenzie fiscali”.
A seguito della nuova disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto devono, pertanto, ritenersi superate le istruzioni fornite con la circolare n. 65/E del 3 dicembre 2007 (confermate al punto 9.6 della circolare n. 12/E del 12 marzo 2010), con cui le strutture territoriali sono state invitate a continuare ad applicare l’istituto dell’autorizzazione all’appello, pur in presenza della consolidata giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, formatasi successivamente all’istituzione delle Agenzie fiscali.

5. Riscossione a seguito di decisioni della Commissione tributaria centrale

Con il comma 2 dell’art. 3 del decreto, il legislatore interviene sulla disciplina della riscossione in pendenza di giudizio recata dall’art. 68 del D.Lgs. n. 546 del 1992.
Il citato comma 2 prevede che: “Le disposizioni di cui all’articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, relative alle sentenze delle commissioni tributarie regionali, si intendono applicabili alle decisioni della commissione tributaria centrale”.
La disposizione richiamata, quindi, conferma che le previsioni in tema di riscossione in pendenza di giudizio, di cui al citato art. 68, trovano applicazione anche in relazione alle decisioni della Commissione tributaria centrale.
In ordine alle disposizioni di cui all’art. 68 del D.Lgs. n. 546 del 1992, si richiamano i chiarimenti forniti – in particolare – con la circolare n. 98/E del 1996.

6. Definizione delle controversie pendenti

Il comma 2-bis dell’art. 3 – introdotto in sede di conversione del decreto – contempla disposizioni volte a deflazionare il contenzioso pendente innanzi alla Commissione tributaria centrale e alla Corte di Cassazione. La novità interessa le controversie tributarie pendenti presso i menzionati organi giurisdizionali, per le quali:

– i ricorsi siano stati iscritti a ruolo nel primo grado entro e non oltre il 25 maggio 2000;
– l’Amministrazione finanziaria dello Stato risulti soccombente nei precedenti gradi del giudizio.

Ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge di conversione, le modifiche in esame entrano in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, vale a dire il 26 maggio 2010.
Per quanto concerne le modalità della definizione in esame, la legge di conversione ha previsto un meccanismo differenziato, a seconda dell’organo giurisdizionale innanzi al quale è pendente la controversia.
Più precisamente, la lettera a) del comma 2-bis del citato art. 3 prevede che “le controversie tributarie pendenti innanzi alla Commissione tributaria centrale, … sono automaticamente definite con decreto assunto dal Presidente del collegio o da altro componente delegato”.
La successiva lettera b) del medesimo comma 2-bis stabilisce, invece, che “le controversie tributarie pendenti innanzi alla Corte di cassazione possono essere estinte con il pagamento di un importo pari al 5 per cento del valore della controversia determinato ai sensi dell’articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, e contestuale rinuncia ad ogni eventuale pretesa di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89”.
Ciò premesso, si forniscono i seguenti chiarimenti in ordine alla definizione delle controversie pendenti aventi ad oggetto rapporti tributari di competenza dell’Agenzia delle Entrate.

6.1. Ambito di applicazione

6.1.1. Iscrizione a ruolo del ricorso

Ai sensi del comma 2-bis dell’art. 3, la definizione concerne le controversie tributarie pendenti “che originano da ricorsi iscritti a ruolo nel primo grado, alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, da oltre dieci anni …”.
Ai fini della definizione in esame, pertanto, si richiede che il ricorso introduttivo del giudizio sia stato iscritto a ruolo entro la data del 25 maggio 2000.
Per la corretta individuazione della predetta data occorre considerare che:

– per i ricorsi proposti ai sensi del previgente art. 17 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, vale a dire prima del 1° aprile 1996 (entrata in vigore della riforma del processo tributario), nessun problema si pone, in quanto la data di iscrizione a ruolo in ogni caso è ovviamente anteriore al 26 maggio 2000;
– per i ricorsi proposti ai sensi dell’art. 20 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (dopo la riforma del processo tributario), la data dell’iscrizione a ruolo è quella del deposito del ricorso presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale, come attestata dalla relativa ricevuta. In altri termini, la data di iscrizione a ruolo coincide con la data in cui, a norma dell’art. 22 del D.Lgs. n. 546 del 1992, “Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita … l’originale del ricorso notificato a norma degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale”.

6.1.2. Parte del giudizio

La definizione in esame è consentita limitatamente alle controversie tributarie nelle quali sia parte del giudizio “l’Amministrazione finanziaria dello Stato”, anche in relazione a tributi – come, ad esempio, l’Irap – il cui gettito sia devoluto ad enti diversi dallo Stato.
Più specificamente, l’Amministrazione dello Stato deve aver preso parte nel giudizio direttamente o tramite le Agenzie fiscali alle quali – per effetto della riforma di cui al D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300 – è stata affidata, a partire dal 1° gennaio 2001, la gestione delle funzioni esercitate dai soppressi uffici del Ministero delle finanze e, in particolare, la gestione del contenzioso.
Fanno eccezione al predetto principio le controversie in materia di aiuti di Stato dichiarati illegittimi con decisione della Commissione europea ovvero di riscossione di crediti tributari esteri. Ciò in quanto l’obbligo di recupero integrale dell’aiuto, nel primo caso, e la riscossione effettuata per conto dello Stato estero, nel secondo caso, escludono sempre la possibilità di definizione delle relative controversie.
La definizione non è ammessa per le controversie in cui sia parte resistente un ente non riconducibile all’Amministrazione dello Stato, quale, ad esempio, un ente locale. Invero, nelle controversie in materia di tributi gestiti dalle regioni e dagli enti locali l’Amministrazione dello Stato non ha titolo per partecipare al contenzioso in quanto è estranea al relativo rapporto (cfr. Cass. 22 ottobre 2002, n. 14896).
Si ritengono definibili, invece, le controversie nelle quali sia parte del giudizio l’agente della riscossione, quando l’ente titolare della pretesa tributaria in contestazione è comunque l’Amministrazione finanziaria dello Stato.

6.1.3. Soccombenza dell’Amministrazione finanziaria

Ai sensi del comma 2-bis dell’art. 3 del decreto, sono definibili esclusivamente le controversie “per le quali risulti soccombente l’Amministrazione finanziaria dello Stato nei primi due gradi di giudizio”.
La definizione trova applicazione esclusivamente con riferimento alle controversie tributarie pendenti per le quali l’Amministrazione finanziaria sia risultata integralmente soccombente nei precedenti gradi del giudizio.
Non sono pertanto definibili le liti per le quali l’Amministrazione sia risultata anche parzialmente vittoriosa – indipendentemente dalla misura – in almeno uno dei precedenti gradi.
La soccombenza dell’Amministrazione finanziaria è determinata dal raffronto tra quanto richiesto dal contribuente e quanto deciso dall’organo giurisdizionale adito e si considera “integrale” quando la domanda del ricorrente sia stata accolta. Si ritiene che ai fini del presupposto della soccombenza non rilevi l’eventuale compensazione delle spese di lite disposta dal giudice.
Posto che la definizione in esame risponde all’obiettivo di deflazionare il contenzioso pendente limitatamente ai casi in cui gli esiti dei precedenti gradi del giudizio facciano presumere una soccombenza dell’Amministrazione finanziaria, ai fini della valutazione del presupposto della soccombenza, occorre guardare all’esito conforme nei precedenti gradi del giudizio, avendo presente che le pendenze in Cassazione possono essere definite anche se precedute da tre gradi di giudizio (Commissioni tributarie di I, II grado e centrale) a condizione tuttavia che sia stato registrato un triplice, conforme esito sfavorevole per l’Amministrazione finanziaria.

6.2. Pendenza della controversia

Sono definibili le controversie tributarie pendenti – alla data del 26 maggio 2010 – innanzi alla Commissione tributaria centrale o alla Corte di Cassazione.
Perché la controversia sia considerata pendente è necessario e sufficiente che alla data del 26 maggio 2010:

– sia stato proposto ricorso alla Commissione tributaria centrale mediante la presentazione dello stesso alla segreteria della Commissione tributaria che ha emesso la decisione impugnata, ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. n. 636 del 1972 (com’è ovvio, la proposizione dei ricorsi alla Commissione tributaria centrale è in ogni caso anteriore al 26 maggio 2000);
– sia stato notificato ricorso per cassazione, ai sensi degli artt. 360 e seguenti del codice di procedura civile, ancorché alla stessa data non sia stato ancora effettuato il deposito presso la cancelleria della Suprema Corte.

Resta inteso che la controversia si considera pendente a condizione che, alla data del 26 maggio 2010, non sia stata ancora depositata la decisione.
Infatti, la pubblicazione della decisione della Commissione tributaria centrale ovvero della Corte di Cassazione – mediante il deposito, rispettivamente, presso la segreteria o la cancelleria – individua il momento terminale del giudizio.
In particolare, la controversia si considera pendente presso la Commissione tributaria centrale se alla data di entrata in vigore della legge di conversione (vale a dire, il 26 maggio 2010) non è stato depositato il dispositivo della decisione presso la segreteria.
Per la Commissione tributaria centrale, infatti, ai sensi del comma 2 dell’art. 28 del D.P.R. n. 636 del 1972, “il dispositivo della decisione è depositato in segreteria e le parti possono prenderne visione”. Al riguardo la Corte di Cassazione ha osservato che “a differenza di quanto previsto in via generale dall’art. 133 del codice di rito, la pubblicazione della decisione (da parte della Commissione tributaria centrale) avviene in due fasi, riguardanti, rispettivamente, il dispositivo e la motivazione.
Il fatto che le parti possano prendere visione del dispositivo depositato in segreteria, prima ancora del deposito della motivazione, porta a ritenere che il dispositivo, una volta depositato, non possa essere più modificato. E questo esclude che il giudice debba tener conto di eventuali modificazioni normative sopravvenute nell’intervallo di tempo tra il deposito del dispositivo e quello della motivazione (Cass. 11 aprile 1992, n. 4466), come pure che il giudizio, dopo il deposito del dispositivo possa ritenersi ‘pendente’ innanzi alle Commissioni tributarie” (Cass. 29 maggio 1996, n. 4986).
Le controversie pendenti in Cassazione, invece, si considerano pendenti fintantoché non venga depositata la sentenza. Come, infatti, evidenziato dalla Suprema Corte, “la pubblicazione della sentenza da effettuarsi a norma dell’art. 133 del codice di procedura civile mediante il deposito nella Cancelleria del giudice che l’ha pronunciata – deposito consistente nella consegna ufficiale al cancelliere dell’originale della decisione sottoscritto dal giudice, in modo da attribuire alla decisione medesima il carattere di atto pubblico irretrattabile ed immodificabile – costituisce un elemento essenziale per la esistenza giuridica della sentenza” (Cass. 13 luglio 1994, n. 6571).

6.3. Controversie definibili

La definizione in esame ha per oggetto le controversie in materia di tributi, in cui sia parte direttamente o indirettamente l’Amministrazione finanziaria dello Stato (cfr. punto 6.2.1.), per le quali, ai sensi degli artt. 2 e 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, sia configurabile la giurisdizione delle Commissioni tributarie, incluse le liti aventi ad oggetto atti di mera riscossione, quali, ad esempio, gli avvisi di liquidazione e i ruoli.
La lettera a) dell’art. 3, comma 2-bis, del decreto esclude espressamente dalla definizione agevolata i giudizi “aventi ad oggetto le istanze di rimborso”, pendenti innanzi alla Commissione tributaria centrale.
Si ritiene che tale esclusione trovi applicazione anche all’ipotesi di controversia pendente in Cassazione, posto che la successiva lettera b) dell’art. 3, comma 2-bis, del decreto stabilisce che, per la definizione delle controversie pendenti in Cassazione, “In ogni caso non si fa luogo a rimborso”.
È evidente che il richiamato disposto normativo esclude – per entrambe le fattispecie di cui alle citate lettere a) e b) dell’art. 3, comma 2-bis, del decreto – la possibilità di ottenere, per effetto anche indiretto della definizione in esame, qualsiasi somma a rimborso.
Né il contribuente avrebbe interesse, invero, a definire una controversia pendente, dall’esito della quale dipenda comunque un obbligo, per l’Amministrazione finanziaria, di restituire delle somme, a qualsiasi titolo versate dal contribuente.
Si osserva, infatti, che la dichiarazione di estinzione del giudizio per intervenuta definizione agevolata della controversia non ha sostanzialmente il contenuto di una pronuncia di accoglimento del ricorso del contribuente né comporta il passaggio in giudicato della sentenza sfavorevole all’Amministrazione finanziaria, impugnata dal contribuente in Commissione tributaria centrale o in Cassazione.
Come insegna la Suprema Corte, infatti, la pronuncia di estinzione per cessata materia del contendere per intervenuta definizione delle pendenze fiscali “comporta (come nei casi di sentenza dichiarativa della cessazione della materia del contendere nel processo ordinario, sentenza peraltro non prevista da una norma processuale espressa al riguardo), da un lato, la caducazione di tutte le pronunce emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passati in cosa giudicata, e, dall’altro, la sua assoluta inidoneità ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale, diversa da quella limitata all’accertamento del venir meno dell’interesse alla prosecuzione del giudizio (vd., tra le molte, a proposito del processo ordinario, Cass., n. 1048 del 2000)” (Cass., 23 luglio 2004, n. 13854; conforme, 1° marzo 2005, n. 4307; cfr. anche 3 marzo 2006, n. 4714).
Parimenti va esclusa la definibilità:

– sia delle controversie aventi ad oggetto il rimborso di imposte versate dal contribuente nel presupposto che spetti una data agevolazione tributaria;
– sia delle controversie concernenti la mera spettanza dell’agevolazione, in quanto all’esito di tali controversie si profila l’esigenza per l’Amministrazione finanziaria di restituzione delle somme versate.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, “la domanda di esenzione, ove ritualmente e tempestivamente formulata, costituendo esercizio del relativo diritto vantato dal contribuente (e, cioè, sulla norma di esenzione e, quindi, dell'”inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento”), non può non implicare (anche) la inequivoca richiesta del contribuente stesso, volta alla restituzione, totale o parziale, di quanto già versato in via meramente cautelativa; in altri termini, sul piano logico-sistematico la domanda di esenzione dal tributo – o, più in generale, di agevolazione tributaria – non può non valere anche come specifica istanza volta alla restituzione di quanto già eventualmente e cautelativamente versato” (Cass. 21 dicembre 2005, n. 28323).
In ogni caso, stante l’indeterminatezza del valore delle controversie riguardanti il diniego o la revoca di un’agevolazione, la definibilità delle stesse – ove pendenti in Cassazione – sarebbe impedita dall’impossibilità di determinare le somme dovute “pari al 5 per cento del valore della controversia determinato ai sensi dell’articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni …”.
Rientrano, invece, nell’ambito di applicazione della definizione in esame le controversie riguardanti il provvedimento con il quale l’Amministrazione finanziaria – oltre a denegare il diritto all’agevolazione – abbia altresì provveduto all’accertamento del tributo o maggior tributo e/o abbia irrogato le relative sanzioni (cfr. punto 11.3.2 della circolare n. 12/E del 21 febbraio 2003).
Per quanto concerne le liti pendenti in Commissione tributaria centrale, si ritiene che siano inoltre escluse dalla definizione le controversie aventi ad oggetto avvisi di accertamento o in rettifica volti a contestare il diritto ad eccedenze d’imposta, dalle quali possa derivare, al definitivo esito del processo, l’obbligo di effettuare un rimborso a favore del contribuente.
Va infatti considerato che l’obbligo di restituzione, come precisato in precedenza anche per la definizione delle controversie pendenti in Cassazione, va comunque escluso e, pertanto, non può ammettersi, a tutela dell’interesse del contribuente, la definizione di dette controversie, in quanto le stesse “sono automaticamente definite”, senza alcuna istanza di parte.

6.4. Definizione delle controversie pendenti in Commissione tributaria centrale – Reclamo

Ai sensi della lettera a) dell’art. 3, comma 2-bis, del decreto le controversie pendenti innanzi alla Commissione tributaria centrale “sono automaticamente definite con decreto assunto dal presidente del collegio o da altro componente delegato”.
La norma da ultimo citata non richiede la presentazione di un’istanza da parte del contribuente né il versamento di una somma. La definizione opera, quindi, ex lege, al verificarsi dei presupposti richiesti dalla disposizione in commento, ed è dichiarata con decreto del Presidente o di altro componente delegato della Commissione tributaria centrale.
Il predetto decreto, in quanto dichiarativo dell’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere in conseguenza dell’intervenuta definizione, ha sostanzialmente il medesimo contenuto decisorio dell’ordinanza prevista al comma 1 dell’art. 27 del D.P.R. n. 636 del 1972. Ne consegue che, quando il Presidente della Commissione tributaria centrale constata la cessazione della materia del contendere, dichiara estinto il ricorso “con ordinanza comunicata alle parti a mezzo di raccomandata a cura della segreteria” e l’estinzione diviene definitiva se “entro 60 giorni dalla predetta comunicazione, non venga da una delle parti avanzato ricorso al collegio con formale istanza notificata alla controparte” (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 636 del 1972).
Pertanto, il decreto dichiarativo dell’intervenuta definizione, assunto dal Presidente o da altro componente delegato della Commissione tributaria centrale, è reclamabile al Collegio entro 60 giorni dalla sua comunicazione, ai sensi del citato art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 636 del 1972.

6.5. Definizione delle controversie pendenti in Cassazione

Per la definizione agevolata delle controversie pendenti innanzi alla Corte di cassazione, la lettera b) del comma 2-bis dell’art. 3 del decreto richiede che il contribuente ponga in essere i seguenti adempimenti:

– pagamento di un importo pari al 5% del valore della controversia, come individuato ai sensi dell’art. 16, comma 3, della L. 27 dicembre 2002, n. 289 (ossia 5 per cento dell’ammontare dell’imposta contestata);
– rinuncia ad ogni eventuale pretesa di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89;
– presentazione, entro la data del 24 agosto 2010, di apposita istanza presso la cancelleria della Corte di Cassazione, contenente – tra l’altro – rinuncia ad ogni pretesa di equa riparazione e, in allegato, l’attestazione del versamento delle somme dovute.

6.5.1. Pagamento delle somme dovute

L’art. 16, comma 3, della L. n. 289 del 2002 stabilisce che, per valore della lite, deve intendersi “l’importo dell’imposta che ha formato oggetto di contestazione in primo grado, al netto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni collegate al tributo, anche se irrogate con separato provvedimento; in caso di liti relative alla irrogazione di sanzioni non collegate al tributo, delle stesse si tiene conto ai fini del valore della lite; il valore della lite è determinato con riferimento a ciascun atto introduttivo del giudizio, indipendentemente dal numero di soggetti interessati e dai tributi in esso indicati”. Per determinare, quindi, il valore della controversia – da assumere a base del calcolo delle somme dovute – occorre far riferimento al tributo o al maggior tributo contestato nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado.
Nel caso in cui il contribuente abbia prestato acquiescenza in ordine a parte del tributo o del maggior tributo contestato, impugnando così solo parte del provvedimento impositivo, per il calcolo dell’importo dovuto dovrà tenersi conto esclusivamente degli importi contestati in sede di ricorso in primo grado.
Ai fini della determinazione del valore della controversia, non deve tenersi conto, invece, degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni collegate al tributo, anche se irrogate con separato provvedimento.
Nel particolare caso che il contribuente abbia prestato acquiescenza al tributo richiesto, limitando le contestazioni in primo grado alle sole sanzioni, per la determinazione del valore della controversia si farà riferimento alle sole sanzioni contestate.
In sintesi, il valore da considerare per il calcolo delle somme dovute è determinato “con riferimento a ciascun atto introduttivo del giudizio”.

6.5.2. Presentazione dell’istanza

Entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione – vale a dire entro il 24 agosto 2010 – il contribuente deve depositare un’apposita istanza presso la cancelleria della Suprema Corte, contenente la rinuncia ad ogni eventuale pretesa di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001 e, in allegato, l’attestazione del versamento delle somme dovute. Sembra in ogni caso efficace – ai fini della definizione – il deposito dell’istanza, effettuato presso la segreteria della Commissione tributaria che ha emanato la sentenza impugnata in Cassazione, in luogo della sua presentazione presso la Cancelleria della Suprema Corte, considerato che la lettera b) del comma 2-bis dell’art. 3 del decreto fa riferimento alla presentazione dell’istanza “alla competente segreteria o Cancelleria”.
Stante la natura amministrativa e non processuale dell’istanza di definizione agevolata in esame, si ritiene che al deposito della stessa possa provvedere personalmente il contribuente, anche se rimasto contumace nel giudizio in Cassazione.
La lettera b) del comma 2-bis dell’art. 3 del decreto dispone la sospensione dei procedimenti pendenti in Cassazione, per i quali sussistono i requisiti di definibilità, fino alla scadenza del termine previsto per la presentazione dell’istanza di definizione.
Si osserva infine che, per espressa previsione normativa, l’estinzione della controversia tributaria per effetto della definizione agevolata in esame comporta la compensazione integrale delle spese di giudizio.